Scrittrici italiane del ‘900, e altro

mai-devi-domandarmiNel cassetto delle riletture completate c’è ora «Mai devi domandarmi» di Natalia Ginzburg, e c’è il mio desiderio di proporlo, perché è davvero una lettura densa di tante cose; ma mi rassegnerò ad accennarne in poche righe, per resistere alla tentazione di rimanere troppo a lungo, cocciutamente, su Natalia Ginzburg, sulla sua scrittura e sulla sua storia.

In chiusura di questo libro l’autrice scrive una nota, è il novembre 1970, per dirci come lo ha “costruito”, raggruppando scritti diversi (articoli apparsi su “La Stampa” di Torino nei due anni precedenti; un racconto, alcuni inediti). E conclude dicendo: “Non mi è mai riuscito di tenere un diario; questi scritti sono forse qualcosa come un diario, nel senso che vi ho annotato via via quello che mi capitava di ricordare e pensare; perciò l’ordine cronologico è forse il più giusto.

E ci può anche stare che questo non sia il suo lavoro più importante, ma è un libro che – dopo aver letto, che so, sicuramente «Lessico famigliare» e «Le piccole virtù» – ci regala un tutto tondo informale della persona e del suo pensiero; con qualche vera chicca. Pensieri della quotidianità, storie dell’adolescenza, dell’età adulta, qualcosa sulle proprie abitudini e idiosincrasie di donna, di madre, di nonna; momenti di confidenza con la persona che lei è, in carne ed ossa; più qualche pensiero, di quelli che incontriamo anche oggi, in un <nostro> oggi che ci si rivela, a quanto pare, perenne, aggiustando dunque, in noi, la sua significatività, la sua pesantezza.

Il mondo che abbiamo davanti e che ci pare inabitabile, sarà tuttavia abitato e forse amato da alcune delle creature che amiamo. Il fatto che questo mondo sia destinato ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli, non ci aiuta a capirlo di più, ma anzi aumenta la nostra confusione. Perché il modo come i nostri figli riescono ad abitarlo e a decifrarlo ci è oscuro; e loro d’altronde sono abituati fin dall’infanzia a dirci apertamente che non abbiamo capito nulla. Perciò il nostro atteggiamento di fronte ai nostri figli è umile e a volte anche vile.”

Natalia Ginzburg scrive queste parole nel dicembre del 1968. Un anno e un tempo peculiari. Ma per lei? Per una donna che aveva attraversato i suoi anni? E c’è dell’altro. Il pezzo da cui è tratta la citazione ha, quale titolo, «La vecchiaia». Beh, la nostra donna aveva, al momento in cui scriveva, cinquantadue anni, pochini per giustificare tale titolo: ma questo forse vale oggi, quasi altri cinquant’anni dopo. E forse la differenza con il nostro oggi non ha a che fare con l’età anagrafica bensì con un diverso tempo della vita femminile, con uno stare al mondo per produrre futuro e, a cinquantadue anni, avere figli trentenni o giù di lì, e nipoti. Era certo meno pregnante, allora, per una donna, un sentimento individuale della vita, appannaggio del maschile.

Eppure, nel suo parlare di sé, dimesso, in un quel suo modo riservato e insieme perentorio, sempre e comunque, anche quando si descrive come un’incapace (a far questo, a far quello), è impossibile fissare in volto Natalia Ginzburg e non pensarla nelle sue relazioni, nel suo lavoro, con le sue idee e prese di posizione, e non interrogarsi sui suoi rapporti con le scrittrici del suo tempo. Che, tra l’altro, fu un tempo fecondo da questo punto di vista. Qualche nome? Limitandoci a un paio di coetanee, una memoria così, a braccio.

Di Alba De Céspedes (1911 – 1997) ho accennato, in queste pagine, brevemente, e dunque non come meriterebbe (qui), e magari, prima o poi, potrei fare ammenda. Coetanea della Ginzburg, dovevano, credo, conoscersi, ma nulla ci dice di un rapporto. La De Céspedes veniva pubblicata da Mondadori, competitor di Einaudi. Negli stessi anni Natalia, vedova, madre di tre figli, aveva certamente altro da fare che dedicarsi ai salotti. Poi, avrà avuto in ogni modo altro da fare, ambienti diversi. Città diverse. La De Céspedes, tuttavia, ha avuto rapporti di collaborazione con Calvino, dunque potenzialmente con Einaudi. Per iniziative culturali, qualcosa a che fare con il comune legame a Cuba. E frequentavano quasi certaemnte un mondo letterario comune.

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Elsa Morante

Un qualche rapporto deve invece aver legato Elsa Morante (1912 – 1985) a Natalia Ginzburg, che curò di far pubblicare, nel 1948, «Menzogna e sortilegio» – ma in realtà, sia pur poca cosa, la Morante aveva già pubblicato per Einaudi, nel 1942, un libro per ragazzi, «Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina», da lei anche illustrato e che fu in seguito riproposto dalla casa editrice che sarebbe divenuta, stabilmente, la sua.

Non c’è traccia, tuttavia, nel parlare di sé di Natalia Ginzburg, di rapporti significativi che esulino dalla famiglia, dai figli. Con altri autori, sì. Con nessuna donna, sembrerebbe.

Nella sua contemporaneità ci sono anche la scrittura e la vita di Anna Maria Ortese (1914 – 1998), grande scrittrice male accolta nell’ambiente intellettuale del secondo dopoguerra, gruppo coeso, i cui membri intrattenevano relazioni strette, composto per buona parte da reduci della Resistenza, nonché scrittori e grandi intellettuali di origine familiare ebraica. Un ambiente con cui Anna Maria Ortese aveva ben poco a che fare.

La sua è stata una storia di vita totalmente diversa. Figlia di un funzionario prefettizio, una storia privata di lutti, carriera scolastica limitata alle scuole medie inferiori, autodidatta, impiegata presso il Gazzettino come correttrice di bozze, nel 1939 aveva vinto, a Trieste, i Littorali Femminili da ciò traendo la possibilità di lavorare per giornali più importanti: aveva 25 anni, ci era cresciuta in quel mondo dove il 18 settembre dell’anno precedente, proprio da Trieste, Mussolini aveva annunciato le leggi razziali e avviato la persecuzione degli ebrei.

Come avrebbe mai potuto essere accolta dall’intellighenzia del tempo? Perché no, anche, ma cosa ne poteva sapere lei, dei miti e dei riti di affiliazione necessari.

Quanto all’appartenenza a famiglie ebraiche di un buon numero dei grandi intellettuali del momento, non poteva essere diversamente. Un mondo, quello dell’ebraismo, colto, di famiglie che avevano, tutte e comunque, ricche o povere, nella propria cultura “Il Libro”, i libri, lo studio, in un’Italia devastata dove ci si affacciava alla modernità partendo da una diffusa realtà contadina e, ancora, con un’altissima presenza di analfabetismo e di bassa scolarizzazione. In quell’Italia, il mondo della cultura, il mondo accademico, il mondo editoriale rinacquero per opera di intellettuali in precedenza espulsi dal regime in quanto ebrei o resistenti.[i] Non poteva essere che così e per fortuna così fu.

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Anna Maria Ortese

Nel 1967, Anna Maria Ortese aveva anche vinto, con «Poveri e semplici» il Premio Strega. Ma la sua fu un’esistenza isolata dai suoi pari, lei ostile a loro e loro ostili a lei (o forse peggio, indifferenti). Si occuparono di lei, riuscendo a farle avere, in vecchiaia, il contributo della Legge Bacchelli, alcuni amici (Dario Bellezza, Adele Cambria, altri, più giovani, meno legati, probabilmente, all’ambiente del dopoguerra).

Anna Maria Ortese ha solo potuto essere una grande scrittrice, che per buona parte della vita pubblicò senza un editore presso cui avere la sua casa; solo nella vecchiaia lo trovò in Adelphi che ne pubblicò, a partire dal 1988, l’intera opera, restituendole, come meritava ampiamente, una voce altrimenti appannata.

Poi, certo, aveva di suo una specializzazione, credo, nell’agire a proprio danno. Nel crearsi ostilità. Per tutta la vita. Nel ‘97 – sarebbe morta l’anno seguente – pensò bene di scrivere un appello per la grazia al criminale nazista Priebke. Poco utile alla sua causa, diciamo.

Mi ci sono dilungata. Mi fermo, interrompo un elenco che ha ancora nomi importanti. Ci saranno, spero, tempo e spazio.

Nel frattempo, sto leggendo «Il miglior tempo della nostra vita», di Antonio Scurati – parleremo dunque ancora di Leone Ginzburg, ma non solo. Un libro importante.

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[i] Solo tra gli scrittori, erano di famiglia ebraica Giorgio Bassani, Carlo Levi, Primo Levi, Alberto Moravia, Franco Fortini, ovviamente Natalia e Leone Ginzburg. Umberto Saba. E sicuramente dimentico altri