
Andrea Zanzotto non è più tra noi ma parla ancora, e la sua voce è in grado di elevarsi alta, forte, pur se (solo) in apparenza rassegnata. Oggi, nel momento in cui il Veneto trova, per coprire il diffuso analfabetismo funzionale che cresce, lo strumento dello sdoganare, sotto la voce impropria di “dialetto”, la sgrammaticatura generalizzata e ufficializzata definendola “lingua veneta”.
E Amen, dice il poeta.
E S’ciao[i]
Checo, tant ben tu à parlà
Fa ‘n mus pavan[ii], contando robe trevisane,
e cussì ben tu a remenà color e tere
che no se savaràe pi dir, debòta,
da ‘ndove che tu fusse. Ah sì che se podea
‘lora co ti, col bosch, mover làvari e lengua
e anca dendive e menton
e assarse andar tutti in fumane
e perder paese e nazhion
par deventar sol che un lodar, content
del so esser par calcossa e nò par gnent.
Ma ades l’é ‘n toch che al bosch
Via i ghe è sapà
tut quel so gran sermon
che ti tu véa scoltà
E tu ne ‘véa portà, da bon spion;
ran, zhoch, s’césene, stran
a starnirne, a imbalsemarne fior,
osèi, fonghi, pavéi, bis, fuin, sprumor
de Ben e Mal che i se remissia intra de lori,
e i se muda un co l’altro, ciavandose, si i pol.
L’è justa, donca, che mi capisse poch al tò pavan
(e ti gnent, fursi, del mé pievesan)
par la reson che poch e gnent, ‘romai
da le to bande o fora par de quà
al ghe someja ‘n sciant a quel che tu a cantà.
(…)
Andrea Zanzotto, In: “Idioma”, Arnoldo Mondadori Editore 1986
“ È dunque giusto se io capisco poco il tuo padovano rustico, e tu forse nulla del mio pievesano (dialetto di Pieve di Soligo, dove è nato ed ha abitato per quasi tutta la vita il poeta), dato che ormai poco o nulla, là da te o qui dalle mie parti, somiglia minimamente a quello che hai cantato.”
Eh già, Andrea Zanzotto lo diceva, in apertura di una sua lunga poesia, immaginando di parlare con tale Checco – che sarebbe, riferisce la nota, Niccolò Zotti, avvocato e poeta del ‘600, che scriveva in dialetto rustico padovano, descrivendo la bellezza dei roveri del Montello, una bella zona collinare del trevigiano peraltro molto cambiata nel tempo, antica terra di boschi ora glabra: “ormai nulla somiglia più a ciò che tu hai cantato”.
Andrea Zanzotto parlava del Montello? Parlava della sua lingua, e di quella dell’antico poeta, ormai incomprensibili l’una all’altra?
Parlava del fatto che l’uno e l’altra si tengono, un territorio e la sua lingua “parlata”, quella che ha a che fare con la terra, con i suoi prodotti, e con chi la cura e vi abita essendone parte; e con gli usi e gli attrezzi e le regole di vita – va bene, oggi diremmo con la <cultura>, ma non so, nell’usare questo termine ormai abusato e violentato si crea uno slittamento che ne deforma il senso.
Zanzotto ci parla – perché la poesia è una lingua “parlata”, e per questo può cimentarsi con i dialetti – di un ampio condiviso “lessico familiare” che si può apprendere solo vivendo, che non si può insegnare; che è un marchio di appartenenza impresso nella voce e nel respiro e nel tempo in cui voce e respiro stanno al mondo, in “quel” mondo e in nessun altro.
Orbene, il Veneto nella sua colta maggioranza in Consiglio Regionale, ha approvato una devastante, oltre che ridicola, legge che certamente verrà cassata per incostituzionalità (se ancora vi è del buon senso e vi sono regole in qualche testa, ormai dispero di tutto) secondo la quale il Veneto sarebbe una Regione la cui popolazione costituisce una minoranza linguistica, discriminata, e che dunque ha diritto alla tutela – modello Alto Adige, per intenderci, dove il bilinguismo italo-tedesco è reale e giustamente tutelato.
Ne discenderebbero: obbligo di insegnamento della (inesistente) lingua veneta nelle scuole, quota posti nella pubblica amministrazione riservata a cittadini veneti in possesso di patentino che certifichi la conoscenza del dialetto (immagino) rilasciato dall’Istituto della lingua Veneta (sì, c’è un organismo con questo nome, poi cosa faccia di utile, dato che tutela qualcosa che non esiste, non si sa).
No, scusatemi, non mi do alla politica attiva, non certo in questo spazio. Ma sono sconvolta, proprio per l’amore che porto al mio dialetto e al grande patrimonio dialettale italiano che, con cultori di questo genere, è destinato a morire proprio nella forma, la sola, in cui può sopravvivere al proprio tempo e alla gente che lo ha incarnato: la poesia, il teatro. Il “parlato” letterario. Di cui, a questi fautori di una inesistente, <generalista> lingua veneta nulla cale, che nulla ne sanno, che mai ne parlano – e invece scrivono improbabili segnali stradali, e cartelli scemi indicanti <cesi> in luogo di bagni, dimenticando la doppia <s> che ne consentirebbe la corretta pronuncia lunga. Perché qui sta il tutto. Questi qui nemmeno conoscono il loro dialetto (perché è vero, si conosce sempre meno, si parla sempre meno e sempre più in modo bastardo).

Stiamo assistendo alla morte della poesia dialettale sostituita da cartelli di toponomastica, indicazioni stradali e di altro tipo, scritti in modo semplicemente sgrammaticato – e non dialettale – con termini che imbastardiscono le ormai desuete lingue locali con un veneto da avanspettacolo.
Perdiamo i nostri grandi poeti – I Giacomo Noventa, Biagio Marin, Carlo Agrimi. Una lunga lista – perdendo di conseguenza le nostre splendide lingue parlate che solo i poeti possono sostenere.
Perché oggi i ragazzi, tra loro, non parlano più il dialetto, almeno non solo, non in maniera così diffusa; nel condominio, nella scuola, nelle frequentazioni, sono oggi presenti famiglie di origine diversa, c’è una mobilità sociale un tempo sconosciuta. E il dialetto, la bella lingua che aveva a che fare con la propria terra, con la piccola patria, se ne sta andando con il mondo contadino, stanziale e dai mutamenti lenti, cui apparteneva; si è ridotto ad un italiano imbastardito con cadenza locale e sì, anche con un vocabolario sempre più infarcito da locuzioni genericamente appartenenti al continuum linguistico locale, cosa molto diversa dal dialetto.
E se voglio risentire il calore, la rotondità e le asprezze della parlata della mia piccola patria di Sinistra Piave devo prendere in mano Andrea Zanzotto perché, pur amandoli, i veneti Biagio Marin o Giacomo Noventa, o Bruno Agrimi, ebbene no, non parlano il mio dialetto, l’odore delle loro parole non è quello della mia terra, il riferimento non è al mio paesaggio collinare, alle viti e ai gelsi e a qualche sparso cipresso. C’è addirittura mare, tra loro, e cosa di più straniero, di più “foresto”, per me!
Solo la poesia è adatta alla lingua locale, perché, come quest’ultima, è una lingua “parlata”. Oppure, certo, il teatro – sempre per lo stesso motivo. E tutti amiamo, oltre a Carlo Goldoni, il teatro di Eduardo De Filippo, e c’è stato un tempo, quando non esistevano le Regioni, in cui la TV italiana trasmetteva il teatro del genovese Gilberto Govi. Duro il genovese, capivo quasi nulla, mi piaceva molto.
Ecco, si tratta di questo. Nessuno di noi si sogna di tutelare il bellissimo veneziano di Carlo Goldoni che, ovviamente, nessun veneziano parla più così come nessun italiano parla la lingua del settecento.
E non cessiamo di leggere neppure Petrarca, e Dante, dovendoli studiare, vero, anche, ma non più di tanto, senza bisogno di parlarne la lingua, e a chi mai verrebbe in mente che, per salvaguardarla, dovremmo avere impiegati pubblici agli sportelli che la parlino.
Perché è così. Questi stanno distruggendo la mia lingua madre, con la pretesa di diffonderne un uso difforme, falso, distorto, che non esiste e nessuno parla. E si vedono qua e là cartelli disgraziati con termini incomprensibili e propri di chi, se è vero che parla male l’italiano, che ne parla una versione raffazzonata e infarcita da termini locali e confusione grammaticale, è altrettanto certo che non conosce e non ama i dialetti, che mai più è in grado di averne cura, come non è in grado di aver cura della sua terra, di cui è un figlio imbastardito e velenoso.
Un disastro. Povero Veneto, ricchezza infinita di ambienti, di colori, di culture, di storie (di una storia tutt’altro che unitaria, come peraltro la maggior parte d’Italia, ma forse di più), di parlate e lessici locali meravigliosi, che rischiano davvero l’estinzione per colpa di una manica di ignoranti “montài in scagno”. Di regola, non do dello stupido, del corto di cervello, a nessuno, perché è evidente, l’epiteto potrebbe tornarmi. Ma quando ci vuole ci vuole. L’ignoranza non basta, ci vuole anche cervello corto. E cattiveria. No (sento il suggerimento) non si tratta di vino: di ubriachi ne ho visti a iosa, ed erano anche persone belle e simpatiche.
[i] E amen. Cecco, tanto bene hai parlato/ come una mutria padovana raccontando cose trevigiane,/ e così bene hai mescolato colori e terre / che quasi non saprei più dire / di dove tu fossi. Ah certo si poteva / allora con te, col bosco, muovere labbra e lingua / e anche gengive e mento / e lasciarsi andare tutti in vampe d’entusiasmo / e perdere paese e nazionalità / per divenire soltanto un lodare, contento / del suo essere per qualcosa e non per nulla. / Ma ora è un pezzo che al bosco / hanno zappato via / tutto quel suo gran sermone / che tu avevi ascoltato / e ci avevi portato, da buona spia; / rami, ceppi, schegge, strame / per farci la lettiera, fiori a darci il loro balsamo / uccelli, funghi, farfalle, serpi, faine, intenso effluvio / di Bene e Male che si intricano tra loro, / e si mutano uno nell’altro, fregandosi, se possono. / È giusto, dunque, che poco io capisca il tuo pavano (padovano) / e tu niente, forse, de mio pievese) /per la ragione che quasi nulla / dalle tue parti ed anche qui da noi /somiglia un poco a ciò che tu hai cantato (…)
[ii] Mi spiace contraddire, e – a distanza di tempo, perduta la possibilità di interpellare Andrea Zanzotto in merito, ma con la sicurezza di chi questo dialetto, per vicinanza assoluta, di luogo natale e di tempo, parla e comprende, un “mus pavan” non è una “mutria padovana”, ma un “asino padovano” – modo di dire che ha a che fare, anche e soprattutto, con una derisione della supposto spocchia dei padovani, che, causa la loro grande università, avevano fama di darsi arie di sapienza, da cui il detto, descrittivo dei caratteri delle principali provincie venete: “veneziani gran signori, padovani gran dotori, vicentini magnagati, veronesi tuti mati”.