Jane Gardam, “Figlio dell’impero britannico”, edizioni e/o 2009 – prima edizione inglese 2004. Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
Jane Gardam, classe 1928, è un’autrice inglese di grande spessore che, molto apprezzata e premiata in patria, per qualche motivo non gode di pubblicazioni in Italia. Le edizioni e/o, a mio parere benemerite, hanno proposto, di quest’autrice, “Figlio dell’impero britannico”, editato nel 2009. È seguito, nel 2011, “L’uomo col cappello di legno”, un prequel del precedente, da quanto si evince dalla quarta di copertina, che temo non abbia avuto grande successo di vendite (ma magari è solo una mia idea, dedotta dal fatto che, ad oggi, non mi risulta sia stato pubblicato altro di questa interessante autrice, molto nota in patria e all’estero).
Per me, “Figlio dell’impero britannico” è oggi una rilettura, che da tempo mi tentava. Quando un’amica mi ha detto che lo stava leggendo, e ne era entusiasta, mi sono decisa. Perché desideravo rileggerlo e perché amo sempre la possibilità di una condivisione. Ed eccomi qua.
Un romanzo molto interessante, da più punti di vista.
La scrittura innanzitutto – perfetta, agile, priva di cadute; se si è desiderato un libro che sia, anche, un passatempo piacevole, e di qualità, lo si ha tra le mani. Un bel personaggio, accattivante; un ritmo narrativo regolare, piacevole, senza affanno.
Nel contempo, è una storia che apre, ai nostri occhi, un mondo – era chiamato il Raj, “l’insieme dei domini e protettorati dell’impero britannico nel subcontinente indiano”. Un mondo risaputo e privo di sorprese – “english”, nel senso più pieno e più stereotipato del termine; e dunque controllato, prevedibile, segnato da regole sociali che ammettono, e anzi prevedono, di essere osservate con un certo humour, ma contenuto, appena lievemente corrosivo, quel tanto che basta. Eccessi banditi.
Questo mondo, diciamo pure questo pezzo di storia, si rivelerà invece denso di significati inattesi – e di dolore, ma non solo. Di tragedia e di dolcezza. Incontreremo un mondo che ci appare lontano ma non lo è; i suoi protagonisti, se non vivono più tra noi, appartengono alla nostra storia recente. La sua storia, opera ancora nel nostro immaginario, e non solo.
Come il protagonista – Edward Feathers, un vecchio giudice inglese, molto noto e stimato nell’ambiente, che aveva trascorso la propria vita svolgendo la professione di avvocato nella Hong Kong britannica, per terminare la carriera come giudice, ricco, affermato; e rientrare in patria, al momento del pensionamento, e in vista della fine del protettorato inglese – era il 1997 e finiva un mondo. Con la moglie. Niente figli. Mai un eccesso, mai una possibile critica al suo operato, o una nota di colore a contrassegnarne la inappuntabile professionalità. Affettuosamente soprannominato “Old Filth” – “Vecchia Schifezza”, in quanto ritenuto l’autore di una battuta (cosa rara, da parte sua): “Failed In London Try Hong Kong”. “Fallito a Londra, prova a Hong Kong”.
Il libro si apre con un dialogo, nella sala da pranzo dell’Inner Temple, una delle scuole di giurisprudenza di Londra, tra giovani legulei che, vedendolo passare, stupiti del fatto che una leggenda fosse ancora vivente, commentano la sua figura, la sua storia di vita:
“Mai un passo falso, il vecchio Filth. Molto stimato” (…)
“Pensi che Old Filth nasconda dei misteri?”
“Mi stupirebbe. Quell’uomo è noia pura”
“(…) Eppure (…)”
A capitoli alterni, conosceremo la storia di Eddy Feathers, la storia di un “Orfano del Raj”, come venivano chiamati i figli degli inglesi, dei funzionari dell’Impero che vivevano e lavoravano nei territori e che, molto piccoli, venivano inviati in patria, soli, per essere affidati a famiglie affidatarie, retribuite, che avrebbero provveduto a crescerli, facendo loro frequentare, in collegio, le doverose scuole, da veri inglesi; bambini, e poi uomini e donne segnati a vita da una, negli intenti, orgogliosa importante educazione e da una speciale dolorosa orfanilità. Bambini che avrebbero dimenticato i genitori, venendo da loro dimenticati. Che avrebbero costruito con le cicatrici la loro forza.
A capitoli alterni seguiremo Old Filth nel suo ultimo periodo di vita, nella casa inglese scelta appositamente, con la moglie Betty, quale luogo per trascorrere insieme gli anni della vecchiaia; dove Betty morirà improvvisamente, lasciandolo solo, impegnato in un “dialogo” costante con l’immagine mentale di lei, alternato dallo sforzo di prendere atto della sua assenza.
“Finita. Perduta. Morta. Passata”
Sotto la forma del massimo decoro english, che segna del proprio rigore, del proprio abito mentale, tutta la narrazione – terza persona, narratore esterno, è necessaria la distanza affinché la forma sia rispettata – la storia regalerà una vicenda di dolore, di abbandono, di fragilità e fratture da superare, da vivere in solitudine e condividere con altri, bambini prima, adolescenti, giovani, poi; mentre il secolo di svolge all’insegna della guerra, e gli anni della crescita vengono messi alla prova in esperienze estreme.
Si intuisce, pagina dopo pagina, il percorso carsico di una storia particolare, che dovrà emergere; un’esperienza, estrema, che deve aver legato la vita del piccolo Eddy a quelle di due cugine, Claire e Babs, e di un altro bambino, con cui aveva condiviso l’allontanamento dalla famiglia e la vita nella casa di “Mamma Didds”, la cattiva madre surrogata. Qualcosa era accaduto. Qualcosa che dovrà essere rivelato; elaborato. Infine accolto.
E tutto è colorato; doloroso e vitale. E i personaggi, di tappa in tappa coprotagonisti, si stagliano, a tutto tondo, nelle loro individualità e nella singolarità delle loro storie e delle relazioni che ne legheranno le vite, anche nella lontananza, nell’assenza – gli insegnanti, la servitù, i compagni di scuola, le cugine con cui, bambino, il piccolo Eddy ha affrontato il mare e il viaggio dalla Malesia all’Inghilterra. Le zie zitelle. “Mamma Didds” e “Zietta May”, la missionaria che lo aveva accompagnato nel suo viaggio verso la patria. Il padre, sconosciuto da sempre, che lo aveva affidato, alla sua nascita, segnata dalla morte della madre, alla famiglia della balia malese; e che si materializzerà solo per strapparlo al suo mondo nella decisione, anche da lui subita, di doverlo rimpatriare per destinarlo alla vita inglese. Il padre cui non tornerà.
Una galleria di personaggi sfila, nella memoria di Old Filth: i buoni, i cattivi, i perduti, i caduti sul percorso, e, alla fine, i sopravvissuti, i forti, divenuti tali, o almeno capaci di rivestirne l’apparenza. Infine, ci saranno gli incontri.
Ci sarà un viaggio; per riannodare i fili di una vita; per risolvere il dialogo con la moglie; per ricollocare luoghi e esperienze e relazioni. Per risolvere, forse, quel qualcosa, accaduto, che lentamente, pagina dopo pagina, semina indizi di sé e richiede, per emergere e risolversi, il ritrovare i luoghi e le persone con cui un’esperienza estrema era stata vissuta.
La chiusura (un ultimo grande viaggio di ritorno) è annunciata, a suo modo benedetta e finalmente pacificata, dalla Messa di Natale – ma guarda, ho scelto casualmente un libro nel suo giusto tempo – che celebrerà il rientro di Old Filth nel presente, e la partenza per un ultimo grande viaggio di ritorno ai luoghi dove era vissuto con la moglie.
Old Filth ha anche imparato, non del tutto, certo, una certa tolleranza per un mondo cambiato che, forse, non gli era fin là appartenuta. Il pastore era una donna. Pazienza.
“Pregò per padre Tansy, per Babs e per Claire. Pregò per le anime di mamma Didds, di Sir, di Oils, della signorina Robertson e di zietta May. Il che gli fece venire in mente altri destinatari. Pregò per Loss, naturalmente, come faceva spesso, e per Jack e Pat Ingoldby, come faceva ogni giorno, e per la povera vecchia Isobel che (…)
Pregò – ma non si usa più mettersi in fila? – per la ragazza gentile e per sua nonna, per Alice, la microscopica donna di servizio delle zie, per Garbutt e per Kate. Pregò per le anime del padre e della madre. Poi pregò per Ada, l’ombra che si chinava su di lui al di sopra dell’acqua e che lui non capiva se era un ricordo o il ricordo di un ricordo. Pregò per il pingue Cumberledge che era venuto fuori forte come un leone.
Come tutto era inspiegabile, vario e meraviglioso (…) Dovette fare uno sforzo su Chloe e sulle anime delle zie, ma alla fine ci riuscì- Non pregò per Betty. Sapeva che lei non ne aveva bisogno.”
No, non è una storia natalizia di buoni sentimenti. Tutt’altro. È una storia dura. E tuttavia, se il Natale esiste per qualcuno, potrebbe averci a che fare. Una buonissima lettura.