“Cinque pazzi su un albero”

truman-capote-larpa-derbaTruman Capote, «L’arpa d’erba», Garzanti 2001, traduzione di Bruno Tasso

“Quando ho sentito parlare per la prima volta dell’arpa d’erba? Molto tempo prima di quell’autunno in cui andammo ad abitare sul sicomoro.”

Mentre la pila dei libri desiderati, in attesa, si accresce, ecco un suggerimento, dal blog di Tommaso Aramaico; un romanzo breve, o lungo racconto, di Truman Capote. È un ricordo lontano, – e infatti, in casa il libro non c’è, ma bastano due giorni a recuperarlo.

Un piccolo tempo di lettura porta a un luogo magico, che tuttavia, strana cosa, sentiamo subito che ci appartiene, che lo conosciamo. Per raggiungerlo, basterà che ci venga regalata una piccola indicazione.

“Se, uscendo dalla città, imboccate la strada della chiesa, rasenterete di lì a poco una abbagliante collina di pietre candide come ossa e di scuri fiori riarsi: è il cimitero Battista. Vi sono sepolti i membri della nostra famiglia, i Talbo, i Fenwick. Mia madre riposa accanto a mio padre e le tombe dei parenti e degli affini, venti o più, sono disposte intorno a loro come radici prone di un albero di pietra.”

Un racconto, questo, che mi è giunto come un viatico per l’anno nuovo, capace di ricordare, e far ricordare, ciò che vale, ciò che resta, ciò che fa bene. Compreso quel po’ di dolore che la vita porta con sé, che compenetra di sé la realtà delle cose buone. Divenendo anch’esso buono.

Vi si narra la piccola città, la chiesa (non “una” chiesa, è la nostra, conosciuta), il cimitero, e la collina, dove le ossa di chi l’ha abitata hanno stretto un patto con la propria terra e con la vita che vi si riproduce, e le tombe hanno messo radici. E così è per noi, che ci troveremo a casa, dove anche la magia del luogo sarà familiare.

Dentro il paesaggio, a farne un tutt’uno con noi, vi sarà ciò che i sensi ci offrono – basta guardare, ascoltare, odorare, e poco importerà, infine, se un certo mondo non c’è più, se il nostro mondo, oggi, qui ed ora, è altro, se non abbiamo a disposizione un bosco, là, a pochi passi da casa; se non abbiamo una casa sull’albero.

Arrivati alla fine – avendo ascoltato una storia, e conosciuto persone, e altre storie – varrà sapere il nostro bisogno di trovare, con quello che abbiamo a disposizione, qualcuno “a cui si possa dire tutto”; e scoprire che, forse, “(…) quando si può dire ogni cosa, non c’è più nulla da dire.”

Leggendo, ci riposeremo nell’ascolto; della voce del vento che scorre tra gli steli della saggina; guardandone il colore che muta nelle diverse stagioni, e ancora quando, al farsi dell’autunno, il campo diventerà “rosso come il tramonto, mentre riflessi scarlatti simili a falò ondeggiano su di esso ed i venti dell’autunno battono sulle sue foglie secche evocando il sospiro di una musica umana, di un’arpa di voci”.

Il vento suona l’arpa d’erba e racconta. “Conosce la storia di tutta la gente della collina, di tutta la gente che è vissuta, e quando saremo morti racconterà anche la nostra.” E allora, quando non ci sarà più nulla da dire, resterà quella canzone, che ci restituirà le vite, e le presenze, e le parole dette – e forse quelle non dette.

Un racconto ineguagliabile, questo, che subito, aperto il libro, immerge nell’ascolto – di un’arpa d’erba; e nella vista – di una casa su un albero; e nella curiosità per le persone che si incontrano – nell’attesa di saperne di più.

Verremo condotti nei luoghi, nei colori, nei sapori, ove la gente vive e ove, dunque, accadono cose, allegre, tristi, divertenti, inaspettate, curiose; da raccontare senza fretta. Con le pause per guardarsi intorno e pensare, mentre andremo, con il narratore, nel luogo dove tutto avviene. Prendendo, semplicemente, per di là.

Perché poi, la storia è curiosa. E bella. Pure divertente. E, possiamo dirlo, credo, finisce bene, avendo assorbito ciò che di buono e di doloroso ogni vita porta con sé.

Chi racconta, ricordando quelli che chiamerà gli anni più belli della sua vita, è Collin Fenwick, al tempo in cui la storia inizia undicenne, rimasto improvvisamente orfano di entrambi i genitori e accolto a vivere nella casa di due anziane zitelle, le sorelle Verena e Dolly Talbo, cugine del padre.

Verena, ricca, commerciante, autoritaria e mascolina, viveva con la sorella Dolly, dolce donna svagata, perduta in un suo mondo colorato di rosa, in cui trascorreva giorni sereni cucinando ottimi dolci e raccogliendo, nel vicino bosco, foglie e radici per produrre una tisana, di sua composizione, utile per combattere l’idropisia.

Collin, trascorso il necessario tempo, “se ne innamora”. E sarà Dolly a raccontargli la storia dell’arpa d’erba.

Nella casa, c’è Catherine Creek, che “sosteneva di essere indiana, e a questa affermazione molti ammiccavano perché era nera come gli angeli dell’Africa”; domestica da sempre nella famiglia, sdentata e  agghindata con una collana di turchesi, amica intima e alleata di Dolly, e di Collin; padrona assoluta, con Dolly, della cucina e dell’andamento della casa mentre Verena, impegnata a condurre i suoi affari e un negozio di mercerie, rispettata e obbedita, viene lasciata all’esterno di quelle giornate femminili occupate e soddisfatte dalle piccole cose di tutti i giorni, dai piccoli piaceri e dal calore della confidenza.

La storia si avvia; una storia che, mentre una fatto inaspettato accade a casa Talbo creando una frattura nella vita ordinata e nella relazione tra le due sorelle, ci farà conoscere, con il bosco, il paese e i suoi abitanti che, ad uno ad uno, entreranno nella vicenda. Incontreremo così i signori County, il fornaio e la moglie, benevoli a pronti ad offrire pan di zenzero e panini dolci; il barbiere, un tipo strano; e Riley Henderson, il bullo del paese, di due anni maggiore di Collin, che nel frattempo avrà raggiunto i sedici anni.

Incontreremo il parroco e la sua signora; e lo sceriffo; e Sorella Ida, che viaggia, sola con i suoi numerosi bambini, osteggiata dai benpensanti, con un furgone spettacolo, commerciando prodotti vari.

E conosceremo le ragazze, Maude Riordan, che suona il violino; e Elizabeth Henderson, sorella di Riley: sia Riley sia Collin, in modi diversi, hanno l’età giusta per i primi amori e le prime esperienze; e per fare tutto nel modo sbagliato.

Tra i personaggi c’è persino un ladro; che, chiave di volta per la soluzione della storia, sarà qualcosa di più e di diverso.

Conosceremo storie di vita, personaggi e caratteri davvero speciali, tratteggiati con pochi schizzi a matita ma che, come per il paese, sentiamo di conoscere bene. Sappiamo di averli già incontrati; e sappiamo che, proprio per questo, non li dimenticheremo.

Conosceremo l’anziano Giudice Charlie Cool che, avendo sostenuto Dolly in una sua forte e inattesa presa di posizione, e avendo condiviso con lei l’avventura e il sogno che ne erano seguiti, dirà a una Verena ostile “Voglio ammetterlo: credo che sia un sogno, Miss Verena. Ma un uomo che non sogna è come un uomo che non suda: accumula in sé riserve di veleno.”

E il protagonista? Ecco: non Collin, in effetti, almeno non solo; lui, pur protagonista, è il narratore. Dolly, Verena, Catherine; il giudice Cool; e Riley; e gli altri; e un paese, e il bosco, alberi foglie radici; e anche un temporale. E due alberi di sicomoro. E altre storie che, volendo, terminato il libro, ascoltando l’arpa d’erba, potremo conoscere, regalandoci e restituendoci vita.

Dimenticavo. Personaggio centrale, una pozione per curare l’idropisia, dalla ricetta segretissima.

Che strano. Di questo libro non potrei dire che è necessaria una rilettura. Lo si legge e rimane dentro, a lungo. Lasciandoci in ascolto. Di molte cose.

Poi, ci sarà un tempo, quello giusto, per riaprirlo, quando la vita ci avrà dato un’altra età e saremo un’altra persona.

Non sono molti i libri di cui si può dire questo.