Javier Marìas, “Tutte le anime”, Einaudi 2006
‘All Souls College’ di Oxford. ‘Tutte le anime’: il titolo di questo bellissimo libro non è fuorviante. Diverse ‘anime’ compongono infatti il mosaico di narrazioni che il protagonista, voce narrante, ci fa conoscere, raccontandoci il periodo di due anni da lui trascorsi con un incarico di docente di letteratura spagnola a Oxford.
Il narratore è un giovane professore spagnolo che scrive per fissare l’esperienza del suo periodo oxoniense, esperienza che definisce “di turbamento” mentre, essendo lui, per carattere, persona tutt’altro che turbata – questo egli afferma di sé – tutto finirebbe per esser dimenticato: “Anche i morti, che sono metà delle nostre vite, ciò che compone la vita insieme ai vivi, senza che in realtà sia facile capire che cosa separa e distingue gli uni dagli altri; intendo dire i vivi dai morti che abbiamo conosciuto da vivi. E finirei per cancellare i morti di Oxford. I miei morti, il mio esempio.”
Verrebbe facile, e forse si desidera, confondere il narratore con lo stesso Javier Marìas, anche perché, nel corso del romanzo il nome del protagonista non verrà mai fatto. Non da lui stesso, che non si presenterà, né in discorsi di altri, che si riferiranno a lui con parafrasi, tipo “il nostro caro amico spagnolo”.
Così, mentre è dichiarata la volontà di Marìas di non essere identificato con il protagonista (sarà lo stesso Marìas a negarlo, dimostrando l’inconsistenza dell’identificazione, nel suo “Nera schiena del tempo”, in cui parlerà di questo suo libro), è peraltro certo che egli abbia usato, per dare carne sangue e voce ai personaggi di questo libro, il portato della sua esperienza oxoniense avendo egli, come il protagonista di “Tutte le anime”, trascorso un periodo come insegnante a Oxford. Appare tuttavia indubbio come solo l’averne scritto protetto dalle vesti di un personaggio di invenzione gli poteva permettere di inserire esperienze proprie, aspetti di persone conosciute, ritratti che sarebbero stati difficili senza un preciso modello. Ma tutto questo sta nel concetto stesso di ‘invenzione’.
E il racconto si snoda, facendoci conoscere, con la distanza che il narratore afferma di voler prendere da questo periodo, destinato ad essere una parentesi nella sua vita, la sua partecipazione, che via via si fa più intensa, alle relazioni che comporranno il suo tempo ad Oxford e il formarsi di affetti e conoscenze e, soprattutto, della capacità del turbamento che gli incontri con le vite altrui producono.
Si snodano racconti di spezzoni di vita oxoniense, il gustosissimo rito delle “higt tables”, che ogni college tiene una volta la settimana. Cene, tra ‘dons’ che occupano, nel refettorio, un tavolo montato su di una pedana per rialzarlo rispetto ai tavoli degli studenti, in cui il rispetto ossessivo di una serie di rituali convive benissimo con la devastazione che avviene di regola nei comportamenti man mano che la cena e l’ubriachezza procedono.
C’è Will, il vecchio portinaio dalla mente confusa, che ogni giorno vive un presente diverso e saluta ogni professore identificandolo con uno dei tanti che sono passati sotto ai suoi occhi nei lunghi decenni del suo servizio.
Ci sono le campane delle chiese di Oxford; c’è il passeggiare indossando la toga, per rispetto dei turisti; ci sono i particolari mendicanti di Oxford, e c’è tutto un mondo fuori dal mondo, in cui l’entrare, o il lasciarlo, anche semplicemente per andare a Londra, porta a un’esperienza di spaesamento.
Ci sono le librerie antiquarie, per “la ricerca di libri esauriti, antichi, rari, da collezionista febbrile e stravagante”. E qui ci sarà l’incontro con i primi ‘morti’ di questa esperienza. Ci sarà l’incontro con Arthur Machen (1863 – 1947), attraverso la presentazione dell’improbabile e a suo modo affascinante figura di Alan Marriot, rappresentante della Machen Company, una associazione di cultori di questo autore di racconti horror (esiste tuttora, in varie forme, in molte nazioni), e del suo cane zoppo.
Ci sarà l’incontro con il poeta John Gawsworth, pseudonimo, e non l‘unico, di Terence Ian Fytton Armstrong, scrittore di racconti e poeta inglese (1912 – 1970), un incontro attraverso il quale Marìas farà brevemente rivivere un letterato le cui opere e la cui difficile e stravagante storia di vita erano pressoché perdute; questo avrà conseguenze interessanti sulla vita di Javier Marìas. Magari ne racconterò.
E ci sono i vivi. Ci sono le figure dei dons, l’amico professor Cromer-Blake, il professor Alec Dewar (detto l’Inquisitore, o il Macellaio, ma anche lo Squartatore) e l’anziano professore emerito Toby Rylands, con il quale si svilupperà una significativa amicizia.
E c’è la relazione con la giovane professoressa Clara Bayes, sposata e madre di un bambino, che si sviluppa in un luogo cui lui non sarebbe mai appartenuto, ove sarebbe vissuto per un tempo finito e dunque una storia destinata a non avere futuro, a chiudersi senza particolari rimpianti. Ma che si chiuderà aprendo un sipario su una storia lontana, sulla Bombay dell’infanzia di Clara, e lasciando un interrogativo, una fantasia, un fantasma.
E alla fine, non sarà di Oxford che questa storia parlerà ma proprio delle relazioni. E saranno fuorvianti, rituali contro il turbamento, le frequenti dichiarazioni di distanza, dalle persone, dal luogo, dall’esperienza destinata a chiudersi e non lasciare traccia nella propria vita.
E’ un libro difficile da raccontare, bellissimo da leggere, per la sua storia, per le sue tante storie e per i suoi personaggi, carichi di vita; per i diversi mondi e tempi che vengono evocati; per la grande sintesi di vita che ricomprende chi oggi è con chi è stato ed è parte di noi. Anche se a vivere tutto questo è un personaggio inventato. E anche se non è del tutto così.