Terremoti, slavine, valanghe…

jared-diamond-collasso… in attesa, si teme, di esondazioni e quant’altro.

Nel frattempo, terremoto magnitudo 8 alle Isole Salomone, Papua Nuova Guinea. Leggo un articolo del maggio scorso a firma di Ben GuarinoThe Washington Post, dal titolo “Le Isole Salomone stanno scomparendo” (qui). 

Quando il livello dell’oceano si è alzato, hanno dovuto scappare. «Il mare ha iniziato ad arrivare nell’entroterra; ci ha costretto a spostarci in cima alla collina e a ricostruire lì il nostro villaggio, lontano dal mare», ha raccontato Sirilo Sutaroti, il capo 94enne della tribù Paurata, a un gruppo di scienziati ambientali australiani. (…) l’aumento del livello del mare sta erodendo la costa e, secondo i ricercatori, intere porzioni di territorio.”

Del loro terremoto di questi giorni non se ne sa nulla, se non una notizia in breve dalla TV. Tuttavia, questo quasi silenzio stampa su di loro, a casa nostra, ci sta, lo ammetto. Lì, nel Pacifico, hanno avuto un evento enorme ma non ci sono state vittime né, sembra, danni; l’allarme tsunami è cessato. Qui, da noi, abbiamo i nostri dispiaceri e i nostri guai. Davvero molto brutti.

Proseguo la lettura.

“Le Isole Salomone, formate da sei isole principali e da un migliaio di altri isolotti, è uno degli stati insulari del Pacifico con minor densità di popolazione, dove poco più di mezzo milione di persone vive su una superficie di 26mila chilometri quadrati. Nonostante la bassa densità di popolazione, però, per alcuni abitanti delle Isole Salomone trovare un posto sicuro dove vivere è diventato difficile. «Nell’arcipelago ci sono grandi isole vulcaniche in cui le persone si possono trasferire», ha scritto Albert[i]. Gli spostamenti, però, possono creare delle tensioni: «La maggior parte del territorio è controllata dai proprietari storici, e quindi spostare un gruppo di persone in un territorio altrui ha provocato un conflitto etnico», ha raccontato Albert. Molte persone rimaste a Nuatambu vorrebbero andarsene, ma non possono permetterselo.”

I problemi politico-sociali si intersecano con i problemi ambientali ed è il disastro. Potrebbe non essere così? Oppure, è necessario sia così? Quale tipo di interdipendenza esiste tra questi problemi?

Non ci sono state vittime, nelle Isole Salomone, perché in certe zone non c’è più nessuno, mi par di capire; non ci sono stati danni perché non c’è nulla che si possa danneggiare, quantomeno, <nulla> secondo i nostri parametri. Mi costruisco fantasie. E lascio perdere.

L’attenzione ai fatti “altrui” scappa facilmente quando non c’è eco stampa, è inevitabile. Troppa la massa di informazioni che ci raggiunge. La stampa italiana, giustamente, è presa dai gravi problemi di casa nostra, e dai fatti internazionali ritenuti di maggior peso (è un fatto) sulla vita di tutti noi, tipo l’elezione del nuovo presidente degli U.S.A., e le dispute sui bilanci italiani in Europa.

Nel frattempo, sono finite in coda, per alcuni giorni, anche le guerre nel Medio Oriente; e le notizie, i commenti, le analisi sull’ISIS, salvo il parlarne nei termini di potenziale fattore di <disturbo> della nostra <sicurezza>, per via delle masse in fuga, dei richiedenti asilo; ci si accontenta di essere costantemente edotti da qualcuno del fatto che tra quella povera gente ci siano anche terroristi: pazzi, fanatici, incomprensibili; e soprattutto del fatto che si tratta, in ogni modo, di persone portatrici di una cultura incommensurabile alla nostra.

Nota a margine: ho corretto, avevo scritto, d’istinto, Vicino Oriente, in luogo di Medio Oriente; in effetti, sarebbe stato un termine geograficamente incompleto ma avrebbe positivamente condotto a perdere un qualsivoglia vissuto di estraneità tra la nostra cultura e la loro.

Mi viene alla mente un bel libro, cui in passato avevo già accennato; per la verità si tratta di due libri, di Jared Diamond: “Armi, acciaio e malattie” (1997); e, in questo caso, “Collasso. Come le culture scelgono di morire o vivere” (2005). Due importanti saggi che affrontano il discorso delle culture umane, correlandole alla geografia dei luoghi e alle caratteristiche, nonché all’equilibrio, dell’ecosistema. Nel primo libro, si esaminano gli elementi ambientali che favoriscono, hanno favorito, lo sviluppo di un certo tipo di civiltà; nel secondo gli elementi che, sempre con riferimento alla geografia, al clima e ai suoi mutamenti, hanno portato una cultura ad affrontare il cambiamento, scegliendo comportamenti idonei ad assicurare la propria sopravvivenza, o non invece, essendo rigide, a causarne il crollo.

Ciò che appare particolarmente interessante è il <come> avviene la morte di una cultura, e Diamond ce lo mostra bene. Come, nel mentre un ambiente viene depredato, si impoverisce, muta, diventa insostenibile per la vita, contestualmente l’ambiente sociale presenti caratteristiche analoghe, involva, entri in crisi, dia luogo a sconvolgimenti. Cosa che avviene anche in presenza di cambiamenti sociali, ad esempio per lo sviluppo di nuove tecnologie, nei sistemi di produzione; o per variazioni demografiche importanti. Sempre, comunque, anche per fattori che hanno a che fare con la relazione che la specie umana intrattiene con il proprio habitat, dove natura e sociale paiono inscindibili.

luther-blissett-qIl pensiero torna – per assenza, direi, per opposizione – al momentaneo silenzio stampa sulle guerre in atto. In effetti, nel mio pensiero, sono partita da lì, anche se ci arrivo alla fine. Sto rileggendo “Q” di Luther Blissett: le guerre di religione in Europa; i massacri in nome di dio; con aggiunta di, o aggiunti a, altro. Il cambiamento: Gutemberg, la stampa; c’era da poco stata la <scoperta> dell’America.

Le guerre di religione, la riforma protestante. Lo sapevamo? I volantini – “Die Flugblatt”, il foglio volante: in circa cinquecento anni non ne abbiamo neppure cambiato il nome – sono stati inventati allora, in questo contesto.

Romanzo storico, massiccio, circa seicento pagine; e tuttavia romanzo, che coinvolge, si fa leggere: consentendo di comprendere, direi persino di <vedere>, un periodo cruciale della nostra storia europea (1517 – 1555), quello dei movimenti, delle sommosse, degli eccidi, che portarono alle riforme protestanti; che avverranno dentro le guerre che, di fatto, sconvolsero l’Europa quasi senza soluzione di continuità, dal 1517 (quado era iniziata la predicazione di Martin Lutero) al 1648 (fine della Guerra dei Trent’anni, che coinvolse tutta l’Europa). Sono state guerre atroci, e si sono combattute nella <civile> Europa, innescate da fanatismo religioso, originato dal bisogno di opporsi al potere che la religione portava e porta con sé.  Oltre cent’anni di guerra, quasi ininterrotta, tra stati protestanti e stati cattolici, che solo alla fine hanno cessato l’inutile finzione. Mentre le rivolte di popolo, che combattevano per il pane, in effetti, venivano condotte anch’esse nel nome di Dio; chiedevano un pezzettino di vita dignitosa in terra, e per averla si affidavano al loro Dio, unico e invincibile, opponendosi a chi, esercitando un potere vessatorio, travisava, a loro danno, lo stesso nome dello stesso Dio. Difficile non vedere una storia che si riattualizza. Nella violenza, nella brutalità. E nel nome di Dio. In un mondo che cambia, dove il cambiamento, intrecciando aspetti fisici e sociali, sottopone a elevato stress le culture. La differenza: oggi abbiamo un solo mondo, e tutto coinvolge tutti, e il pianeta stesso.

Pure, il romanzo è un romanzo: pagine drammatiche, coinvolgenti; personaggi storici, in una narrazione che ne rispetta le figure e le gesta, senza che il carattere romanzesco della narrazione ne risenta.

Avevamo rimosso, credo, anche senza dover ritornare al XVI secolo, cosa sia la guerra. Leggendo, mi par di capire che, al tempo, non fosse così. Gente terrorizzata, disperata, affamata, ma non incredula di fronte all’orrore. Come noi sembriamo esserlo oggi.

Nella seconda metà del ‘900 una generazione europea ha vissuto la pace, ha cresciuto figli che non hanno avuto i padri in guerra, le cui madri non hanno conosciuto le sirene antiaeree e i rifugi, e la ricerca del cibo. Una generazione che non ha conosciuto i matti di guerra (o ha potuto scegliere di ignorarli).

Sono trascorsi cinquecento anni ma eravamo anche allora, noi europei (oggi dovremmo dire noi occidentali) <gente civile> – quantomeno, questo è ciò che asseriamo di noi stessi.

Dimentichiamo: un nostro passato che assomiglia molto a ciò che ora sta vivendo il Medio Oriente, altra grande area di civiltà, comunque la si voglia considerare; e un nostro tempo ancora molto vicino, del quale ancora conosciamo i viventi; un nostro trascorso di brutalità incommensurabile, molto recente.

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[i] Simon Albert, ingegniere civile alla Università of Queensland, in Australia; co-autore di un studio sull’erosione della costa nelle Isole Salomone nel contesto del riscaldamento globale causato dal cambiamento climatico antropogenico.