Invecchiare? Perché no, dico io

Raffaele Simone, “La mente al punto. Dialogo sul tempo e il pensiero”, Editori Laterza 2002

 

“Lasciamo perdere, per favore.

Almeno mi lasci spiegare un po’ meglio…

 Cosa c’è da spiegare? Lei mi ha chiesto di parlare dell’invecchiare, anzi del modo in cui <IO> sto invecchiando, e di far questo io non ho nessuna voglia.

 (…)

E non mi piace neanche la parola <invecchiamento>. (…) bisognerebbe semmai trovare una parola che desse meglio l’idea della deriva da uno stato all’altro (…) mi andrebbe meglio <senescenza> (…) Fa pensare al senex dei latini, al vecchio augusto e solenne a cui si ricorre ogni tanto quando, parlando di vecchiaia, si vuol fare della retorica. Insomma, è una parola più decente. Ma a un certo punto, vedrà che questa parola si rivelerà di comodo e non potremo più usarla: dovremo dire per forza <vecchiaia>. Le parole non scherzano, perché non scherzano le cose sottostanti”

 

L’autore finge un dialogo con un, si suppone, giovane intervistatore interessato ad indagare l’invecchiamento della mente nell’esperienza di chi lo sta vivendo.

Argomento dei più interessanti. Detto da me, può far pensare a qualcosa del tipo Cicero pro domo sua ma non è il caso, non si tratta di un testo dei più consolatori, anche se cerca, si sforza, di chiudere con una nota di positività, di accettazione. Si tratta di un testo che, forse, va letto, al meglio, per tempo, quando il tema, nella propria esperienza, appartiene ad un futuro chiaramente ancora altrui. Vero è tuttavia che, letto – nel mio caso riletto – in tempi mutati, constato un cambiamento del mio giudizio; oggi rido un po’ di ciò che, in altro tempo, avevo seriamente considerato, e viceversa.

“Sto per entrare nel decennio grigio.”

Da ora in poi, ci dice l’autore, inizia l’età in cui si finge, chi più chi meno, pubblicamente ma anche nel dialogo con se stessi, il permanere nel pieno delle proprie capacità, ben sapendo che non è vero; fenomeno, questo, che colpisce in particolare alcune categorie di persone. Sicuramente, in primis “gli uomini di potere”, mai disposti a riconoscersi superati e a cedere il passo. Ma al loro seguito troveremo “gli intellettuali, la livorosa tribù cui appartengo”, persone che si sentono sempre, “tutti, sotto la protezione di quell’ipocrita di Cicerone” che, nel “De Senectute” ha dato una falsa, idilliaca rappresentazione della vecchiaia, fondata sull’acquisizione di pregevoli doti: saggezza, equilibrio. Che altro?

Marco Tullio Cicerone, Musei Capitolini

(Difficile non concordare con Raffaele Simone in merito all’ipocrisia ciceroniana. Dopotutto, l’esperienza, che dovrebbe giustificare la saggezza, consiste per tutti nella somma dei propri errori, con particolare riferimento a quelli non riconosciuti, e se non fosse così, in ogni caso utile solo a chi l’ha accumulata, in un mondo che, come la gioventù, se ne è andato. Ma Cicerone era un potente <e> un intellettuale, e dunque…).

Tornando al libro, l’intervistato appare preparato, sul tema; ammette di averci pensato a fondo, di essersi documentato attraverso ciò che sulla vecchiaia è stato scritto, poiché, per chiunque, a un certo punto, premono domande non di poco conto:

Cosa succede con l’invecchiare? Come è fatta la vecchiaia? Come potrò venirne a capo? Cosa sarà di me? (Domandare, informarsi) è un modo di attraversarla meglio (…). Anche se…la vecchiaia non si attraversa: ci si resta dentro.”

Il dialogo si snoda, analizzando piuttosto il funzionamento della mente umana, nelle teorie che autori diversi hanno proposto per tentarne una descrizione, e attraverso metafore che Simone utilizza per regalarci un’idea del funzionamento della nostra mente, e della sua evoluzione nel tempo di vita: del suo decadere, in effetti; delle strategie di contrasto (scarse, mi pare, vane, temo)

L’attività della mente, peraltro, il <Denken>, il <Pensare>, alla fin fine dipende anche dal nostro averne curato l’evolvere, per produrre: cosa? Sicuramente qualcosa che, nel tempo, decadrà, in parte si perderà, ma che costituirà il patrimonio su cui contare per fronteggiare tale decadenza.

Il <Denken>, dunque, che, rifacendosi al pensiero platonico delle tre anime (razionale, irascibile, concupiscibile – vogliamo chiamarle modalità in cui l’anima si esprime?), Simone utilizza per costruire una sua tripartizione del pensiero, distinto in Unterdenken , Mitteldenken  e Überdenken (Chissà perché deve usare vocaboli tedeschi, ma così è).

Avremo dunque un Unterdenken, un <sottopensiero> che “si ottiene combinando cose altrui, cose che ci sono arrivate per sentito dire, mezze idee, frasi fatte, formule risapute, cose a cui non si è pensato abbastanza, e che non <si sono pensate> a fondo”.

L’autore inserisce in questa forma di pensiero le chiacchiere, le discussioni sul calcio” ma anche certi corsi universitari che si fanno controvoglia (…) certi interventi che si fanno in Congressi di cui non ci importa niente, (…) certi lavori che si scrivono solo per fare carta o per mantenere una promessa.” Più che possibile che non escluda sé dai frequentatori di un modo del pensiero che, peraltro, definisce utile: ad esempio ad evitare acting out in violenza, dove la chiacchiera costituisce una valvola di sfogo che inibisce il passaggio all’atto (Domando: quindici anni fa come stavamo a social media?)

Troveremo poi il Mitteldenken, il <pensiero medio>, quel tipo di riflessioni, giudizi, che formuliamo sulla base di un pensiero non approfondito, non <ripensato>, non rivisitato dal pensiero critico. <Rifrittura>, la chiama Simone: il riposarsi nelle proprie sicurezze, mi par di capire, con l’utilizzo di una cassetta degli attrezzi fatta di vecchi pensieri e conoscenze superate.

Anche in questo caso, Simone mira il bersaglio della propria classe intellettuale che vive di prodotti taglia e cuci, copia e incolla, assegnando al computer la funzione di strumento principe per chi “non pensa cose nuove ma rimescola e combina cose vecchie”.

Ma la colpa non è del calcolatore: è della mente. Si tagliava e incollava anche prima del calcolatore, beninteso

Si giunge, attraverso questo percorso, all’Überdenken, al <superpensiero>, che produce, in chi lo sperimenta, una magnifica sensazione di libertà, di eccitazione, di bisogno di “mettersi alla prova”.

Simone si tratterrà su questo; uno speciale inno alla giovinezza della mente.

E si susseguono le metafore descrittive del funzionamento della mente. Curiose, Interessanti. Utili a dimenticare, e far dimenticare, il tema: la senescenza della mente, cui l’autore ritorna, riluttante, tra una metafora e l’altra, come a un argomento che non fa piacere affrontare.

Richiami colti, citazioni, Wittgenstein e De Saussure, S. Agostino, Platone, Cicerone, e soprattutto un biologo e neurofisiologo come Gerald Edelman (nome orecchiato, certo, ma del quale nulla sarei in grado di dire, volendo evitare anch’io quel Mitteldenken che il computer consente, ma che, qui, rispetto al tema, e nonostante Simone ne ponga l’opera come centrale nel suo pensiero, non risulterà essenziale conoscere). Rispetto al tema principale, dico, al quale l’autore sembra voler sfuggire – come in effetti aveva detto all’inizio. Senza riuscirvi, come da programma, perché, lo ha detto lui:

“Le parole non scherzano, perché non scherzano le cose sottostanti.”

Perché mi era piaciuto tanto questo libro? E perché mi piace ancora, a fronte di una lettura che ne cancella il ricordo? Io ricordavo un testo che mi aveva tenuta attenta, che mi aveva regalato informazioni e riflessioni; ritrovo oggi un libro che attrae la mia attenzione soprattutto per l’evitamento del tema, per il suo disperdersi ed essere ripreso: con dispiacere, sembrerebbe, in previsione; e con un qualche accenno di umoristica rassegnazione.

Quindici anni non sono trascorsi invano, e oggi l’autoreferenzialità porta il sorriso, nel vedere come si può mascherare l’attesa di un evento temuto con un pensiero che sfugge al compito sterilizzandolo, vagliando le diverse funzioni della mente, il loro mutare; e, alla fine, non sfuggire ad un tirare somme accettabili, rassegnati e sereni (noblesse oblige).

La mente è in grado di accumulare grandi riserve per l’inverno che verrà; e ognuno vivrà la propria vecchiaia potendo contare, o meno, su ciò che avrà raggranellato in pensiero, esperienza, conoscenza: pur se l’autore, mi pare, dimentica affetti, relazioni, capacità quali il ridere, il giocare, il godere); e mi trova in parziale disaccordo verso la chiusura, dove dice: “(…) le nostre conoscenze sono dissipative rispetto agli altri, ma sono un capitale rispetto a noi stessi; sono le noci che accantona per noi lo scoiattolo della mente, per nutrirsi nell’inverno della vita.”

Vero, ma vero anche che l’essere umano può nutrirsi unicamente nutrendo altri, e unicamente da altri riceverà nutrimento.

Senza condividerlo in ogni sua parte, è un buon libro, che mi ha accompagnata a produrre pensieri miei. Anche divergenti. Non è poco.