Ratatuje

Lamia Berrada-Berca

Un piccolo libro letto al volo; un lungo racconto, con l’aggiunta, in appendice, di una selezione di brani scelti, una piccola preziosa antologia tematica. Un bel riposo postprandiale divano-libro.

Una forte emozione inattesa.  In luogo di leggere il mio “Oro colato”, di Albinati, diligentemente appuntandolo (e ignorando l’autore che prescrive, nel tono del poi ognuno faccia come gli pare, “appunti ben scritti: da buttare”), sono inciampata in una lettura estemporanea (vediamo di cosa si tratta, pare una cosuccia interessante), acquistata ieri in un fuori programma: passeggio in centro, appuntamento con un’amica in libreria  – la bella piccola libreria S. Leonardo di Treviso dove certamente non si trova tutto ma sicuramente si possono trovare libri inattesi, parte di un catalogo pensato.

Lamia Berrada-Berca, “Kant e il vestitino rosso”, edizioni e/o 2016

Nell’attesa, vi ho aggiunto altri due acquisti: Un “giallo”, credo; me ne viene parlato bene, casa editrice non a me nota che, di conseguenza, mi incuriosisce:

Gesuino Némus, “Ora pro loco”, Elliot 2017.

Completo gli acquisti improvvisati con un secondo minuscolo libretto, una quarantina di pagine, neppure nuovissimo:

Francesco Maino,Ra-ta-tu-ja. Parole alla prova”, Ronzani editore 2016

Titolo attraente. Forse da chiarire per i non veneti, il francese “ratatouille” da cui la parola deriva non aiuta molto: la parola vale, cito la definizione dell’autore, come “accozzaglia di obbietti inservibili, disfunzionali, caotici, e randagi” dove quell’<obbietti> accentua un’accezione di: oggetti (che sarebbero) da <gettare>.

Nel caso, si suppone siano (fintamente) ratatuje i quattro capitoletti, o i temi, (ma no! Saranno ratatuje gli oggetti linguistici con cui l’autore, posso dire <gioca amaro> sulle sorti del mio e suo Veneto, imprecando su di una lingua e per mezzo di una lingua – “L’antilingua”, si intitola il primo dei capitoli – le cui incongruenze e contorsioni mostrano… mah, meglio che non ne parli, magari c’è una totale differenza tra ciò che mi aspetto da questa lettura e il libro: ci si fanno delle attese, ma al momento l’ho solo sfogliato, assaggiato, e mi aspetto uno di quei piccoli gioiellini che capita di trovare proposti da una piccola Casa Editrice; da uno di quegli editori benemeriti che  si incrociano, appunto, nelle piccole migliori librerie e che, in questo caso, ho finora trascurato. Utilizzo ora questa occasione ghiotta per rimediare, e per avvicinare un autore che ha pubblicato, con Einaudi, un libro – “Cartongesso”, Supercoralli 2014 – che, a sua volta, aveva compiuto al tempo un tentativo nei miei confronti, senza approdare a un acquisto-lettura causa il tema (motivo in effetti della curiosità): il mio Veneto, appunto, e le sue condizioni, argomento che mi coinvolge ma nel contempo mi provoca dei crampi allo stomaco di rara forza. Ecco.  L’ho detto.

Piccola aggiunta: il secondo capitoletto di “Ra-ta-tu-ja” si intitola “Zaiazione finale”.  Detto tutto. Il volumetto mi pare un buon modo per una possibile immersione in questo autore; per prendere l’acqua, che abborro, con gradualità. Un assaggio. Poi, si vedrà.

In ogni caso, rubo il titolo per questo post. Dopotutto, la parola mi appartiene, è parte del mio linguaggio abituale.

Ieri, vedendo il titolo, prendendo il libro, commentando con la libraia (quanto sarà stufa delle chiacchiere di clienti occasionali!) mi sono tornati alla mente due vocaboli che nella mia quotidianità sto perdendo, in realtà appartenenti più al mio lessico familiare che al dialetto, e che come tali, Natalia Ginzburg insegna, bastano da soli a ricostruire e restituire un’infanzia, una famiglia, a sostenere il riconoscimento – ormai impossibile, non è rimasto nessuno, ma il ricordo è vita che prosegue anche nell’assenza e assicura identità. Così, li racconto:

Il “Ciomao” e il “Timidoi

È mia madre che parla, o mia nonna: Dài, jutame, no me ricordo! Come se ciameo, dài, te ‘o sa! …Te à capì…. Me scampa ‘l nome! … insoma, l’era un <ciomao> de quei che…”[i]

Identica frase, con finale variato: “insoma dài, sbrigate, paseme ‘l <timidoi>.”[ii]

Il contesto aiutava, soprattutto nel secondo caso, dato che nel primo un <ciomao> poteva essere un oggetto del mondo qualsivoglia: il prezzemolo, una collana di perle, la dichiarazione dei redditi o il cestino del cucito. Difficile, contesto o meno, sbrogliarsela.

Nel secondo caso, la scelta tra gli oggetti del mondo si faceva più ristretta: un <timidoi> è un attrezzo, e dunque potrebbe essere una scopa, un mestolo, uno straccio, il mattarello, un coltello da pane… solitamente il contesto consentiva una rapida risposta.

La lingua italiana è ovviamente più ricca di qualsivoglia dialetto, pure, certe sintesi non le consente. Poter intrecciare le due lingue, con l’aggiunta, poi, dei lessici particolari, della famiglia, del luogo, rappresenta una ricchezza impagabile.

 

Oggi, tuttavia, è stato “Kant e il vestitino rosso” ad intrigarmi, provocandomi l’emozione di cui dicevo; tutta da decifrare, da elaborare, che mi ha lasciata esausta – per certi versi senza che io ne comprenda davvero il come, il perché: deve trattarsi di un gran bel racconto ma, ecco, non lo potrei dire; ha toccato, forse, corde particolari per me, con un esito di tale intensità da rendere impossibile la distanza necessaria a valutare.

La storia: Una giovane madre marocchina vive a Parigi, a Belleville, con il marito e una figlia bambina. Ha lasciato il suo paese da poco. Non conosce la nuova lingua. È analfabeta. Esce solo per fare le spese, nelle vicinanze, totalmente coperta dal burka cui è stata obbligata dal momento del matrimonio. Vede, in una vetrina, un abitino rosso e, inaspettatamente, per la prima volta, viene colta da un prepotente, colpevole, desiderio. Al rientro a casa trova, per caso, non sto a raccontare, un libro – “Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?”, di Immanuel Kant.

Il vestitino, che torna e torna a vedere. Il libro. Un mondo di bisogni che premono su di lei.

Si fa aiutare dalla figlia, si fa leggere alcune frasi. Il suo mondo entra in crisi; la sua infelicità – necessaria, di donna inesistente che aveva visto finire, con il matrimonio, e con il velo nero che da quel momento l’aveva ricoperta, la sua esistenza di persona – si fa dolore acuto, contro cui cercare un’uscita. E una strada si apre.

In appendice – un’appendice che occupa oltre metà del libro (cito): Testi di Molière, Voltaire, Montesquieu, Choderlos de Laclos, Immanuel Kant, Olympe de Gouges, George Sand, Maupassant, sull’emancipazione l’uguaglianza e la libertà delle donne, contro le superstizioni il fanatismo religioso e per la tolleranza.

Una bibliografia composta di pezzi brevi, ben selezionati; ragionata, bellissima. Di rara chiarezza ed efficacia. Totale: di meno di centocinquanta pagine.

Mentre leggevo, davanti a me, attraverso gli occhi della donna, della bambina, scorreva non il paesaggio di Belleville ma la cittadina della mia infanzia, le donne del quartiere, anni cinquanta; la chiesa al di là dalla strada, il vicino collegio delle suore salesiane, ed ecco i veli neri, i corpi nascosti, pur a volto scoperto. Il mondo separato delle donne, delle bambine. Ho sentito con gli orecchi della bambina gli insegnamenti delle nonne, quelli che impregnavano l’aria di un mondo femminile separato; ho sentito l’aria che respiravo, che portava a introiettare “valori” che diventavano tanto più vincolanti in un tessuto fatto di narrazioni, di separazione, di scuola femminile, di suore – non esiste ribellione a catene che non si vedono, di cui anzi è meritevole e approvato il peso. Esiste consenso non saputo. È possibile discutere la qualità dell’aria che si respira, ma non l’aria. Non il fatto che sei una bambina, una brava bambina, un mondo separato.

Ho letto la storia di una vita totalmente altra e ho sperimentato un’identità – differenza, enorme, di grado, per un uguale paradigma. È stato doloroso, e violento, e luminoso. È stato intriso di stanchezza, per quella donna in burka e per tutta la fatica che la nuova strada le avrà aperto, e per tutta la luce, anche, di quella strada. Con la paura. Mia.

I testi in appendice – saputi, tutti, ben noti – d’improvviso totalmente nuovi. Impossibile! Le lotte di anni e anni! I risultati raggiunti. E certo, gli obiettivi ancora aperti, e tuttavia!

La consapevolezza improvvisa, che in altri anni, ora distanti, non possedevo, della fatica, del dolore, della tanta strada. Di una VITTORIA! tanto vicina, eccola, tra le mani! tanto lontana.

Ho provato dolore per la stanchezza dell’ancora lungo faticosissimo cammino delle giovani donne che stanno vivendo ora. La stanchezza del poter solo guardare una fatica che non vede ancora la luce in fondo al tunnel. Che sa che c’è? Non ne sono così certa!

Non so, se il racconto mirasse a questo risultato. Ancora una volta, il testo prende la vita di chi legge, della sua storia, del tempo in cui si legge.

È davvero un bel racconto. Vitale. Vincente.  Da non perdere, per tutti, uomini e donne che vorrebbero vivere davvero insieme.

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[i] Aiutami, dai! Come si chiama? Dai, tu lo sai! Insomma, si trattava di un <ciomao>  di quelli che…

[ii] Insomma dai, svelta. Passami il <timidoi>