Gesuino Némus, “Ora pro loco”, elliot 2017
Un incontro interessante, per certi versi curioso, con un autore per me nuovo. Dico “per me” in quanto, per sé, l’autore ha raggiunto, fin dal suo primo romanzo “La teologia del cinghiale”, Elliot 2015 una sua notorietà e riscontri positivi dalla critica.
Gesuino Némus, nome d’arte di Matteo Locci, è un sessantenne che entra di prepotenza nel piccolo mondo letterario italiano: Vincitore del Premio Selezione Bancarella 2016 e del Premio Campiello Opera Prima 2016 con “La teologia del cinghiale“, ha già al suo attivo, con “I bambini sardi non piangono mai”, e con questo “Ora Pro loco” tre romanzi in tre anni. Tutti pubblicati con Elliot Edizioni, e tutti ambientati in un piccolo paese sardo, in un luogo fortemente segnato dallo spessore della realtà, come spesso accade ai mondi di invenzione.
C’è, in questo romanzo, una storia che viene raccontata: non potrebbe essere diversamente. Non sarebbe tuttavia azzardato definirla secondaria, posta nel ruolo di spalla al personaggio principale: il paese di Telévras, e la sua gente, un mondo fortemente caratterizzato da un habitat unico; una natura bellissima e difficile che segna delle proprie caratteristiche gli uomini che la vivono.
Arrampicato sui Tacchi dell’Ogliastra, segnato da un’economia di sopravvivenza, Telévras si sta spopolando. “La stampa locale aveva pubblicato i dati dell’ultimo censimento. L’avevano fatto tutti, ma proprio tutti. Ci tenevano a restare sopra i 1000 abitanti ma non c’erano riusciti: 987”
Pochi bambini. I giovani se ne vanno. La ricerca, e la speranza di promuovere il turismo con sagre del cinghiale e della pecora si sanno impossibili: troppo all’interno, lontani dal mare. “Un solo alberghetto, niente mezzi pubblici, l’ultimo treno s’era visto nel ’57, strade che avrebbero avuto bisogno del <miracolo di S. Pietrino>.
Con il paese, saranno personaggi i comprimari, le figure che sostengono la narrazione, come coro, che faranno da spalla allo svolgimento di una storia di morte violenta, nel dubbio se si tratti di incidente o omicidio, e all’azione del protagonista, Marzio Boccinu, Ispettore Capo di Polizia, detto “su tostorrùddu”[i].
Un noir, dunque, in forza di un’assegnazione necessaria e tuttavia impropria. Ci sono i morti, certo; c’è una domanda su come tali morti siano avvenute, in un paese di gente ospitale dove tuttavia il silenzio è la regola; dove le regole sono rispettate e, tra queste, anche quella che dice per un verso l’omertà, per altro verso la riservatezza estrema, per altro ancora la condivisione di tutto ciò che accade dentro una comunità coesa nella quale, proprio in quanto non esistono segreti possibili, la cura della giusta distanza, di una forma nel silenzio e nella parola, è essenziale al buon vivere; dove anche le stesse forze dell’ordine, a modo loro e nell’osservanza della <Legge>, paiono rispettare tale regola, in un gioco delle parti che permette ad ognuno, entro limiti taciuti ma chiari, di vivere in armonia.

“Io non scrivo gialli, io racconto una storia” – dirà l’autore in un’intervista, parlando del suo secondo libro (qui) – “e nei luoghi dove sono nato le storie sono di morti ammazzati”; un racconto che si inserisce in quello che pare essere un fortunato filone narrativo, che appoggia sulla restituzione al lettore di culture locali, regionali, di cui l’Italia è ricca, giocando anche una lieve chiave umoristica che conserva tuttavia una prospettiva profondamente identitaria e di adesione valoriale molto marcata.
Intrisa di dialoghi, espressioni, in lingua sarda, debitamente e necessariamente tradotti all’interno del testo, la scrittura di Gesuino Némus è un bellissimo “parlato” che mescola, sapientemente, ma non al punto che “l’imbroglio” non si colga, un linguaggio colto dissimulato da una veste naïf, e dove anche questo artificio viene volutamente esercitato e negato, in un abile gioco nel quale nulla è lasciato al caso, con una strizzata d’occhio complice al lettore.
La storia. I personaggi.
Telévras, un paese di montagna, dove non c’è neppure il Sindaco (non c’è nessuno che lo vuole fare? Parrebbe).
Sergiolino, l’autista della corriera che quotidianamente scende e sale, vede, sul percorso, essere accaduto un grave incidente stradale. C’è il morto, sconosciuto; è un incidente? Non è chiaro. Le indagini di rito si avviano. Qualche sospetto che non si tratti di incidente.
Il libro inizia tuttavia con un’altra morte, naturale ma, per il luogo, “prematura”. La zona è celebre per i suoi centenari mentre Venanzio Oréri, responsabile della Pro Loco ha sempre avuto problemi di salute, e morirà a soli 82 anni.
“Era un “sardopatico. (…). C’era nato con quella malformazione che lo avrebbe portato a morte prematura. Lo sapeva. Lo accettava. Nonostante facesse di tutto per imitare i centenari del luogo facendo una dieta sana. Mangiava come loro: carne di pecora che esplodeva di grasso, pecorino stagionato coi vermi, culargiónes che scoppiavano di aglio e formaggio salato, maialino del giorno prima a colazione ma niente. La sua situazione non migliorava. Aveva provato anche a bere, come consigliano ancora da quelle parti, due litri di cannonau al giorno. Ma niente da fare. Più faceva una dieta sana, normale, peggio stava.”
Si apre il tema: occorre eleggere il nuovo Presidente della Pro Loco, funzione essenziale per il problema del luogo: come attirare turisti, come sviluppare l‘economia della zona, e frenare la morte di un paese dove di lì a poco non sarebbe rimasto nessuno. Entra in scena Telévras nelle vesti dei personaggi centrali nella vita della comunità.
C’è il bar di Samuele Baccanti, al centro del paese, luogo dove tutto ciò che accade viene riferito, discusso, dibattuto, con parole e con silenzi.
C’è Donamìnu Stracciu, il poeta “ufficiale” del paese. C’è Sergiolino Sciafferru, conducente d’autobus – sarà nominato nuovo responsabile della Pro Loco.
C’è Titina Inganìa, la catechista, membro, unica donna, della pro Loco e che, un giorno oserà entrare al bar di Samuele “(…) vietato alle donne perché era ancora considerato <sconveniente> che una donna entrasse in un bar frequentato da soli uomini”.
In questo romanzo spiccano, in effetti – per la loro totale assenza – le donne: un’assenza assordante. Il solo momento in cui appaiono, si fa per dire, sarà a pag. 15. Piove, cosa che non avveniva da otto mesi, e c’è aria di festa in paese.
“Le finestre che si aprivano, i pochi bambini che scendevano per la stradina a festeggiare al buio e le donne (eccole! Ci sono!) che si salutavano sorridenti uscendo come se fosse stata la festa di sant’Antonio: ci vuole una festa per uscire? Parrebbe.
C’è infine, con altri, un Gesuino Némus-personaggio, una particolare invenzione, un improbabile alter-ego che, credo, appaia, in vesti diverse, in ogni romanzo dell’autore, così come vi appare il paese di Telévras mentre i personaggi, protagonisti, comprimari, variano. È un tipo originale, uno che scrive e che qualcuno descriverà, in questa storia, come “Un demente totale, (…), uno che aveva passato quasi tutta la sua vita in manicomio”.
Gesuino Némus personaggio ha scritto un testo di interessante originalità – “Vita quotidiana del Nuraghe 51”. Poco più di una trama, poche pagine che Donamìnu Stracciu, il poeta “ufficiale” del paese, cui giungono nelle mani, vorrebbe aver scritto lui; e che vorrebbe usare come storia per costruire una leggenda del paese capace di attirare turisti. Donamìnu ne è affascinato, la storia è bella, di quelle che potrebbero funzionare, più della fama dei sequestri, roba passata, più delle danze locali e delle varie inutili sagre.
Ne avevano parlato, con Venanzio Oréri. “Ecco, tu che sei bravo a scrivere, dovremmo inventarci qualche luogo magico, qualcosa che possa attirare i turisti”
“Facciamo apparire la Madonna?”
“Ma che Madonna e Madonna…lascia stare i Santi”
“Le janas? Inventiamoci un posto dove tutto è magico”
“Già fatto. Non funziona”
“(….)”
“E fai il poeta ogni tanto! Inventa, crea, che qui altrimenti ci moriamo, dentro i nostri costumi, alla nostra età stiamo ancora qui a ballare per far vedere che giriamo in tondo con le launeddas. E piri piri pì e piri piri pà…e non ne posso più di fare su passu torrau. Mi viene l’infarto, con quelli che mi fanno le fotografie.”
Cosa dire: un bel romanzo, una lettura piacevole, molto; una scrittura interessante, una capacità dell’autore di giocare con salti temporali, di inanellare storie, davvero non comune.
Qualcosa disturba; c’è qualcosa, in questa storia, che in dirittura finale, stona. La dissonanza potrebbe essere unicamente un mio punto di vista e, trattandosi di un noir, scrivendone svelerei la trama. Si tratta, in ogni modo, di qualcosa che, non inficiando la qualità dell’opera, mi ha indotta – una verifica, su di un autore che ho letto con piacere – a iniziare la lettura del suo primo romanzo. Al momento “La teologia del cinghiale” mi sta affascinando e sono praticamente certa che leggerò anche “I bambini sardi non piangono mai”, libro nel quale, derivo dall’intervista con l’autore in link, i suoi temi probabilmente vengono compiutamente alla luce.
Leggete questo autore. Lo condividerete? Non so. Godrete la lettura? sicuramente sì. Con la musica giusta, e naturalmente “Si deus cheret e sos carabineris lu permittini”
____________________________
[i] Ostinato, poco diplomatico