A proposito di libri. Chiacchiere, spero, senza costrutto

Solitamente parliamo, in questo spazio, di libri e del mondo in cui essi vivono – le librerie, le biblioteche, le nostre case; del mondo che li produce, di autori, editori, di traduttori. Parliamo di noi lettori, che frequentiamo i luoghi del libro e ci relazioniamo alla discontinua gamma di opinion maker che questo mondo attiva.

Tra i canali che ci informano sui libri di nuova uscita c’è anche la pubblicità.  I “Consigli per gli acquisti”, come diceva quel tale: e non è un fatto del tutto ovvio. Il libro è un prodotto di tipo particolare. Quantomeno, credo, è ciò che pensiamo noi lettori – vogliamo definirci, con il termine in uso: “forti”?

Ecco un termine ambiguo: essere un lettore “forte” credo significhi, per il mondo del marketing (che costituisce il riferimento, essendo il libro un prodotto che, per sostenersi, deve vendere), essere qualcuno che, in un periodo dato, <acquista> molti libri.

Significa tuttavia, e soprattutto, qualcuno che, in un tempo dato, <legge> molti libri: che anche prende alla biblioteca, che scambia con amici lettori, che possiede e rilegge. Ed ecco che il significato del termine <lettore forte> mostra uno slittamento.

In ambedue i casi, tuttavia, non viene rilevato <cosa> legge <chi>: e il fatto, se ci si pensa, è curioso. Come è possibile mettere nello stesso paniere il lettore di classici latini con il lettore di opere scientifiche specialistiche e il lettore di narrativa sommando, tanto per dire, chi legge i classici russi in lingua originale con i lettori (purtroppo, occorre dirlo, anche se oggi è l’otto marzo: le lettrici) della Collezione Armony e similari. Sarebbe come fare una classifica di quanti orologi da polso si vendono in Italia non discriminando tra l’orologino di plastica e quel tale orologio di cui non mi viene il nome, quello che costa un’iradiddio, che se viene regalato a un politico equivale a una tangente.

C’è di che riflettere. Nella società di un tempo – non di un tempo storico, di anni che ricordo bene io che, qualora fossi posta in vendita al mercatino, sarei categorizzata certamente nel modernariato, ma non ancora tra le antichità – nessuno si sarebbe affidato alla pubblicità generalista, pur esistente, per vendere un libro. I lettori erano una categoria ben definita, ognuno e tutti ben conosciuti dal loro libraio di fiducia che avrebbe provveduto a consigliare il libro giusto alla persona giusta, corredandolo di lunga recensione colloquiale.

da: Wikipedia

C’era la stampa periodica di area, c’erano le recensioni dei critici che stroncavano i libri, cosa che ora, con l’eccezione (temporanea) di Michela Murgia, non si fa più.

Ecco: i libri, un tempo, erano un prodotto i cui canali di distribuzione erano specifici, cosa che oggi avviene ancora unicamente, per l’appunto, per pubblicazioni specialistiche, testi universitari, editati da case editrici di nicchia, operanti in un mercato particolare, elitariamente ignote al vasto pubblico.

I libri erano tuttavia un prodotto per pochi: oggi, per quanto si legga troppo poco, sono, finalmente, un prodotto a disposizione di tutti. Obiettivo raggiunto? Non proprio: potremmo avanzare il sospetto che il libro, divenuto prodotto per tutti, stia mutando la propria natura.

Abbiamo un’editoria che tenta di coniugare la produzione di opere mainstream, di elevata fruibilità, con il mantenimento di una buona-alta qualità – ma anche no, dovendo ricercare il consenso del più ampio pubblico possibile; costretta ad eliminare dal catalogo il libro, anche di qualità, che vende poco, immagino con qualche frustrazione dei responsabili editoriali che forse vorrebbero ma non possono.

Le ricadute, per la società tutta, sono potenzialmente devastanti.

I libri sono cose che stanno nel mondo in cui tutti viviamo: ne fanno parte e ne dipendono, contribuendo a formare l’humus culturale in cui vivono e che respirano anche coloro che non leggono. Non vi è alcuna separatezza tra l’attività della lettura e ogni altra azione del nostro essere nel mondo.

Leggere è, dunque, qualcosa che porta ricadute nella qualità del vivere di tutti. Non è un’attività passiva. Paradossalmente, lo è il (credere di) non leggere: solo in quest’ultimo caso (il peggio, temo, di) ciò che viene fissato dalla scrittura si installerà nella mente orientando le credenze in assenza di un esercizio di critica che lo relativizzi e lo renda modificabile. Perché – come ben insegnava Umberto Eco – non tutto ciò che viene pubblicato è vero; non tutto è buono e giusto.

Leggere è un verbo dal significato multiforme: pur se non vi facciamo caso. Solitamente, quando utilizziamo proposizioni del tipo “In Italia si legge poco”, ci riferiamo all’attività di lettura di <un libro>, con implicita preferenza per il campo della narrativa.

Quando chiediamo a qualcuno se sia un lettore, la risposta, a ben vedere, dovrebbe essere unicamente “sì”.

Giornali, quotidiani e periodici; fumetti; post dei social; istruzioni per l’uso di aggeggi vari; posta che, in luogo delle antiche lettere d’amore, o di amici, ci porta varie carte da leggere attentamente; pratiche burocratiche di vario spessore. Pubblicità, opuscoli di vario tipo. Tutte letture che si installano nella nostra mente e la informano.

Incrociamo a questo punto il concetto di “analfabetismo funzionale”: che colpisce anche chi legge.

È estremamente difficile assegnare un significato produttivo a questo concetto, che colpirebbe in maniera diffusa e, per così dire, inattesa, soprattutto la nostra popolazione giovane.

Dico questo non perché il problema non sia reale ma perché si colloca dentro un mondo – del lavoro, della politica, dell’imprenditoria e, temo, di una parte della scuola – composto da una popolazione di adulti e anziani che vivono le stesse identiche, se non peggiori, condizioni. È un mondo in cui l’analfabetismo di fatto, in nessun senso funzionale, è accolto come non costituisse un problema per la qualità del nostro mondo del lavoro, della nostra imprenditoria, del mondo dei mestieri e delle professioni.

Oggi, una popolazione adulta-anziana in buona parte incolta detiene, soprattutto nel mondo del lavoro, un controllo sociale tale da poter chiedere alla scuola di essere primariamente luogo di formazione al lavoro come se, ad esempio, finanche le benemerite Scuole di Arti e Mestieri non dovessero insegnare ai  loro studenti, perché divengano bravi professionisti nel campo prescelto, ad essere primariamente cittadini competenti in grado di vivere e agire nella società cui appartengono e solo in seguito in grado, nel lavoro, di far sì che la mente, il pensiero ben formato, guidi la mano: perché il lavoro umano è sempre e comunque lavoro intellettuale.

La sintassi italiana fa cilecca sulle labbra di un nostro aspirante Presidente del Consiglio? Non è un caso isolato.  Per una parte consistente della quota anziana o in procinto di diventarlo della nostra popolazione si assume nei fatti come accettabile l’incompetenza nell’uso della propria lingua, senza rilevare che non si tratta solo di un problema di correttezza formale nella costruzione della frase quanto di una difficoltà, che la lingua rispecchia, nel produrre pensiero critico, nel comprendere la società in cui si vive e dominarne l’organizzazione.

Dovremmo ricordare sempre che le culture non mutano velocemente e invece, quando pressate eccessivamente da fattori esterni – da una guerra; da accelerazioni o crisi repentine dell’organizzazione sociale, ad esempio in presenza di una forte innovazione tecnologica; da fattori demografici che portano ad aumenti improvvisi della popolazione – in luogo di adeguarsi evolvendo scivoleranno nell’anomia.

Fino all’inizio degli anni ’70 la scolarizzazione è stata in Italia, per molta parte della popolazione, limitata ad una alfabetizzazione di base e poco più, in un mondo in cui, per il vivere quotidiano, la necessità di possedere competenze di buon livello nella lettura e nella scrittura, per non dire nella lingua parlata, era minima.

Oggi, molto prima di una elevata competenza nei diversi campi della scienza applicata, è urgente una elevata competenza nei primari campi della lettura, della scrittura, dell’uso delle lingue (plurale) unitamente a una alta formazione nell’esercizio del pensiero critico.

Ed è urgente ripensare quell’attività particolare che è la produzione di libri: elevando la qualità del prodotto ad alta diffusione che tanta parte ha nella formazione e nel mantenimento della capacità cognitiva e critica. Occorrerà ripensare a quel fondamentale punto di snodo che sono le librerie e i loro sacerdoti, i librai, troppo spesso costretti in una professionalità frustrata, divaricata tra logiche di mercato impropriamente generaliste e consapevolezza della specificità di un prodotto che svolge un ruolo di snodo nella cultura di una popolazione; un ruolo che, se perduto, condannerà una cultura all’anomia e all’estinzione. In un mondo globalizzato: apocalittico.

Vogliamo ricordare? Germania 1933: un popolo di lettori forti viveva un periodo di lunga grave crisi economica e di cambiamento sociale.

Di Bundesarchiv, Bild 102-14597 / Georg Pahl / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5415527

5 marzo 1933: Hitler vince le elezioni democratiche.

10 maggio 1933: biblioteche di molte città svuotate e libri al rogo.

Oggi non dobbiamo più temere questo scenario. La morte del libro può avvenire senza allarmi, senza che nessuno se ne accorga. Basterà che il libro muti la propria natura.

Già avviene – per quanto mi riguarda, confesso – che ci si rivolga alla libreria per procurarci la lettura di svago, e all’acquisto on line, senza alcuna relazione con un libraio, per i libri importanti. Non va bene.