Giorni particolari – tutto già veduto

Giorni particolari. Non mi rimane che renderne conto e farne un argomento di possibile confronto.

Non era mai accaduto che, senza programmarlo, o quantomeno, annunciarlo, io interrompessi per tanti giorni la mia scrittura in questo spazio. È accaduto e sta accadendo: che si mescolino, invadendo il tempo e i modi della mia lettura, e della scrittura, temi e impegni personali – tipo bellissimi: fare la nonna! – con un abitare il mondo al peggio di sempre che frantuma lettura e scrittura.

Impossibile tuttavia non pensare che il peggio c‘è sempre stato; ai diversi livelli: della nostra povera irredimibile Italia, della nostra infingarda Europa, del mondo intero e lasciamo perdere gli aggettivi. Il peggio è una costante e, tema logico irresolubile, mostra sé ogni giorno di più.

Tra le tante cose, sono, e ormai dovremo dire che sono stati, i giorni, i mesi, di Afrin, dell’”Operazione ramo d’ulivo”, come l’ha denominata il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, sostenuto peraltro, sembra, da una sua opinione pubblica entusiasta: forse, quasi certamente, solo l’inizio di questa operazione il cui esito potrà essere lo sterminio della popolazione curda di Turchia e Siria. Mentre tutto avviene, le nostre democrazie occidentali (e non solo, democrazia  a parte) hanno abbandonato i combattenti curdi a quello che appare l’inizio di un genocidio – blandamente deplorando, dopo averne gradito ed ammirato l’aiuto, il coraggio, il valore contro l’IS, tradendo il sostegno e la protezione dovute.

Ed ecco il tema: mentre tutto avviene, mentre giornali e social rimbalzano notizie, si accumulano espressioni di dolore, si rincorrono appelli ad offrire l’aiuto ipocrita di qualche euro (e il fatto che possa pure servire nulla cambia di questa ipocrisia) per aiutare ospedali nel frattempo bombardati con le nostre armi, i libri sembrano cadermi dalle mani, fuggire dalla mia testa. La scrittura si blocca.

Mi accorgo di un mio cercare compulsivamente un libro-fuga. Quel percorso virtuoso – libro chiama libro – si è inceppato, frantumato da una realtà che, forzando a guardare l’orrore nell’impotenza, porta a cercare scappatoie malsane, un succedaneo devastante dell’assuefazione.

È solo emozione? Del momento? Un improprio senso di colpa che il sentirsi impotenti (desiderare l’onnipotenza) porta sempre con sé? Se così è, sarà sorgente di una necessaria vergogna, di un disagio profondo per uno stare al mondo impotente per scelta, che ognuno per sé e tutti uniti compiamo compatti cliccando o meno un emoticon sui social (metto la faccetta che piange o la faccetta arrabbiata?), donando qualche euro ad organizzazioni umanitarie, distogliendo lo sguardo dal giornale, cambiando canale, per insopportabilità giunta all’insensibilità da difesa mentre lasciamo la voce dello speaker salmodiare sopraffatta dal bisticcio familiare dell’ora di cena, dai capricci dei bambini, dalla conversazione sul piccolo fatto personale del momento.

Parlo per me, ovviamente. E tuttavia nulla di nuovo. Tante altre parti del mondo sono abbandonate ad una guerra solo in apparenza spezzettata in tanti focolai, che non vogliamo vedere, tanto troppo dolore e disumanità, mentre ci si affanna su problemi piccoli e grandi, ad ognuno i propri, nello stesso calderone lo sfortunato Fabrizio Frizzi e le buche di Roma con le ipotesi di un inutile governo e la Catalogna, il tutto anticipato o seguito dal quotidiano Papa Francesco che a sua volta salmodia  disperatamente e inutilmente senza sosta. Ogni problema sparato, nei nostri giornali, nei social, tanto più forte quanto più banale, tanto più forte quanto più, vogliamo dire, rassicurante? per quella prossimità che ci consente di non alzare lo sguardo da un quotidiano che ci fa sentire capaci di lottare per qualche piccola o grande cosa – tipo cancellare i vitalizi, che è giusto, giustissimo, credo, forse, chi se ne importa, tutto sta nella scelta dell’unità di misura del problema e nella scelta di guardare mentre le bombe cadono sulla gente e ognuno di noi si scosta: non c’è alcuna guerra fintantoché la casa che crolla non è la mia?

Non so. Il peggio, quello di sempre, forse un po’ di più ma neanche tanto. Nulla di nuovo se non, forse, io – più vecchia, disillusa di un percorso di uscita, di un percorso di lotta possibile, di una speranza che domani, qualcosa – cose così.

Io e i miei libri. La mia arma, in qualche modo. Li ho sempre vissuti così. Un accumulo di ricchezza che si trasmetterà, in qualche modo, qualcosa che mi ha fornito armi vere per la vita, e per armare i figli, e magari, se sarò molto fortunata, per qualche tempo, anche i nipotini.

Dei libri, ho sempre pensato che abbiano tutto a che fare con la vita, con la realtà. Mai li ho pensati come un veicolo di fuga; di riposo, sì, certo, per quel tempo buono che anche Dio, pur dopo un lavoro malfatto, si è concesso; un tempo utile che non interrompe il pensiero e tiene legati al mondo, alla gente, alle sue storie, alle risposte possibili, espandendo la nostra possibilità di comprensione del vivere nostro e altrui.

Dove il problema, dunque? Dove quel qualcosa che rende impudico, per me, in questi giorni, immergermi in un libro, cercando, temo, solo qualcosa da leggere la sera, viatico all’addormentarsi; un libro-fuga da una realtà su cui non ho potere ma, soprattutto, su cui non riesco neppure più a credere che qualcuno lo possa avere.

Ayse Deniz Karacagil

Ho ripreso tra le mani e richiuso, “Kobane calling” (qui): insostenibile lo sguardo bello e forte di Ayse Deniz Karacagil, una per tutte, per tutti, il pensiero orrendo della fortuna di essere morta giovane nel pieno della speranza. Senza vedere questo dopo.

Tra le mani letture disordinate, e buoni libri a rischio di venir letti male. Cos’ho tra le mani?

Truman Capote, “Colazione da Tiffany”, Garzanti 2016 –  lasciato, in questo momento lo sprecherei; scelgo di lasciare la narrativa, meglio qualche vecchia cosa di genere diverso: un libro-fuga, per l’appunto.

Platone e l’ornitorinco”, di tali Thomas Cathcart e Daniel Klein, Rizzoli 2007, filosofia in forma di barzelletta. Al tempo l’avevo acquistato attirata da una citazione in esergo di Groucho Marx: “Questi sono i miei principi; se non vi piacciono ne ho degli altri”. Bello, vero? Libro-passatempo accettabile che tuttavia non mi aveva particolarmente catturata al tempo e non mi ha catturata ora.

Per la prima e totalmente inattesa volta nella mia vita ho pensato che, forse, dovrei liberarmi da quella che mi è parsa una forma di dipendenza dai libri (pensiero subito cassato, sparito, rimosso, ovviamente; pur se il tema di un uso erroneo della lettura non sarebbe, di suo, tema da trascurare).

Sul tavolo ci sono ancora dei buoni libri in attesa:

Hermann Keyserling, “Diario di viaggio di un filosofo. L’india”, Neri Pozza 2002: un regalo, che farò tuttavia attendere, insieme a un altro bel libro –  Mark Twain, “Seguendo l’equatore. Un viaggio intorno al mondo”, B.C. Dalai editore 2010 – frutto di un passaggio al “Libraccio” di Parma dove ho trovato anche, con grande piacere, Ingeborg Bachmann, “Invocazione all’Orsa Maggiore”, SE 2002, arricchito di un’appendice fotografica, a cura di Luigi Reitani.

Scrivere aiuta; e oggi ho trovato la risposta. La rilettura giusta. Senza fughe.

Antonia Arslan, “La masseria delle allodole”, Rizzoli 2009

Mentre, per chi fosse interessato, mi piacerebbe riproporre Franz Werfel, “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, Casa Editrice Corbaccio 2013 (qui).

“Chi parla ancora, oggi, del massacro degli armeni?”. Con questa celebre espressione Hitler si preparava, nell’agosto del 1939, ad invadere la Polonia usando ogni brutalità possibile. Non a caso: i dirigenti nazisti e lo stesso Hitler consideravano la “soluzione armena” come un importante precedente per tanti motivi, ma soprattutto per la relativa facilità con cui venne attuata, la sostanziale impunità ottenuta dai suoi responsabili e la generale dimenticanza di quell’avvenimento negli anni successivi.” [i]

Come dimenticare il primo, ad oggi irrisolto, genocidio del XX° secolo, che ha colpito, nel corso della prima guerra mondiale, il popolo armeno per mano di un moribondo Impero Ottomano: oggi, quel genocidio che la comunità internazionale, pur riconoscendone la realtà storica, ipocritamente accetta che venga formalmente negato dal governo turco, sta ancora figliando.

Forse la mia piccola inutile crisi è risolta – e il dolore può aver luogo, senza ipocrisie. Il sentimento di impotenza può essere vinto. L‘arma: un libro.

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[i] In: Marco Tosatti e Flavia Amabile, “Gli eroi traditi”, incipit di “Finestra sul massacro” di Marco Impagliazzo