Tuttecose

Zerocalcare, “Kobane Calling. Facce, parole e scarabocchi da Rebibbia al confine turco siriano.”, bao publishing 2016

 

Però contate che questo libro magari finisce in mano a gente che di solito non mi legge e che è cascata nella trappola dell’argomento impegnato.”

Vero, proprio vero.  Parliamone, dunque.

Avviene che, qualche volta, io la legga, sig. Zero – il Calcare lo lascio perdere, mi ricorda tanto che faccio ANCHE la casalinga, cosa che, AL MIO STESSO LIVELLO INTELLETTUALE – E PROVI UN PO’ A FARCI SU UNA VIGNETTA – un maschio della specie manco sa cosa sia una lavatrice e problemi connessi: LUI PUÒ. QualcunA agisce per lui e provvede a calzini sporchi e connessi. E non mi dica che, scrivendo quella frase, non pensava a mani femminili, mani in età, di mamme siorette, dedite al gruppo di lettura e nel frattempo a dire al figlio di mettersi la maglietta là, dentro i cinquanta gradi del confine turco siriano.

Lei ci scherza, sul genere “Pulcinella scherzando dice molte verità”. Ed ha totalmente ragione.

La notizia della morte di Ayse Deniz Karacagil mi ha spinto ad acquistare il suo libro: di cui qualcosa sapevo, ovviamente; quel tanto che bastava ad essere colpita da questa, vogliamo definirla notizia di cronaca? Tale unicamente per merito suo, direi, e notizia per pochi intimi, temo ancora. Complice facebook, e un post neanche particolarmente virale ma che Repubblica ha ripreso. Giusto: a parte quel ritratto, nelle sue vignette, chi la conosceva? Né, la sua, di Ayse, è stata una sorte rara, ed ora è solo un veloce ricordare, e un veloce cacciare dalla memoria, perché fa male, perché sotto i numeri di troppe morti ci sono singole vite, storie, relazioni, c’è un po’ ognuno di noi. Non pensiamoci a lungo, dunque, perché fa male, forse inutilmente.

Il sentimento dell’impotenza rende cattivi, specialmente quando sappiamo bene che non si tratta di vera impotenza ma di, anche ragionevole, se vogliamo, sana via di fuga.

Anch’io non sarei contenta, pur apprezzando chi lo fa, se mio figlio partisse per certi viaggi, neppure per “portare medicine“, come si dice, buona la prima e vai.

Vecchia lettrice di Internazionale, (quasi) dal n° 1, mi è capitato di incontrarla, sig. Zero. E di apprezzare il suo lavoro. Capita poi che io frequenti un figlio che la legge. Cose così.

Capita soprattutto che, non capendo totalmente nulla di – si dice grafica? fumetto, disegno, quello che è – in mancanza di cognizione alcuna in merito allo specifico linguaggio, i suoi lavori mi piacciano – preciso tuttavia che, in famiglia, tra un marito e un figlio amanti di quelli che io chiamo fumetti, di me si dice che sono una che, i fumetti, o quel che sono, “li legge”. Intuisco il significato della frase, intuisco che è una presa per i fondelli. E prendo nota del fatto che quando, tra i maschi di casa, si parla sul tema – l’ultimo album di qualcuno, l’ultimo film in digitale, ecc. – io vengo esclusa dalla conversazione senza neppure chiedermi di, per favore, uscire dalla stanza, dato che si stanno svolgendo discorsi tra grandi. Si forma una specie di bolla che avvolge e separa la mia incidentale inutile presenza.

Resta il fatto che: a) c’è anche una parte scritta in questo, e in tutti, i suoi lavori, una parte encomiabile, e questo ha il suo peso; b) capita che io apprezzi anche la parte grafica, il disegno, o quello che si chiama. Capita che mi emozioni tantissimo, capita che, in una vignetta, si trovi un intero racconto e tutte le emozioni che regala una storia raccontata bene; capita che la parte scritta sia o non sia essenziale, sia o non sia preminente e che, tra l’una e l’altra, la dialettica sia tale per cui la vignetta costituisce la narrazione mentre la – didascalia? Commento? Specificazione? Aggiunta di informazione? – ne sia un abbellimento grafico non obbligato.

Come dire: Capita, che io apprezzi. Che mi avvenga di frequentare il genere, e i suoi lavori, senza competenza alcuna, come quando, da ragazzina, piangevo su “Guerra e Pace” odiando Napoleone con tutte le mie forze senza chiedermi alcunché in merito alla qualità letteraria del testo.

Ed eccomi qua. I soldini spesi per il libro mi autorizzano a dire la mia (non che ne sia davvero certa, ma ho deciso così).

Che dire. <Come> dire qualcosa se non – ecco, qualcosa di questo tipo:

Mentre è certo che, attraverso questo suo libro (la cui prima parte conoscevo, avendola più o meno letta (guardata e letta) su Internazionale….

 – non so come sia, ma io ho bisogno di un libro, per leggere, le vignette, a puntate, certo, le leggo volentieri ma poi è come se, non so, finissero perse, anche avendo a disposizione l’intera collezione delle riviste, ovviamente in cantina, il problema dello spazio…

… e mentre qualcosa di ciò che sta accadendo nel nostro Vicino Oriente ci raggiunge, nell’ascolto distratto o attento del telegiornale, questo libro (ora non sto più parlando con lei sig. Zero) ci raggiunge con una massa di realtà che la cronaca giornalistica non possiede; mentre il libro dà corpo a una testimonianza dotata di una grande matericità, che il disegno concreta in pochi tratti – bianco nero, luce ombra, qualche traduzione fintamente umoristica, in veste caricaturale, di persone reali in veste di cliché (ma l’affetto si sente, e la mamma chioccia, è calda, e amata – e va bene, che male c’è a identificarsi? È naturale!) dove altre persone, reali, come tali disegnate, risulteranno evidenze concrete di un’astrazione: <il/la> combattente>, <le vittime della guerra>, chi sta là, a fare o a subire, chi serve il tè, o qualcosa del genere…

“Nikita c’ha i calzini di Angry Birdy!”

“È come se la realtà switchasse da Barbapapà a Granito nell’arco di un frame”

“Oh, Ciocca, i calzini de Nikita!”

“Non la fissà, famo una figura de merda!”

Murale, dipnto da Zerocalcare, zona metro fermata Rebibbia di Roma. In: http://www.fumettologica.it/2014/12/murale-zerocalcare-rebibbia/

…mentre tutto questo… in ogni luogo c’è Rebibbia, c’è il quartiere romano, c’è la vita di ogni giorno, e gli impegni, e, sì, TUTTECOSE che, incredibilmente, rendono reale QUELLA realtà altra, là, al confine turco siriano – e ci sta dentro la gente, proprio come a Rebibbia, e c’è quel buco di coscienza, quel non farmici pensare che ti ci fa pensare; non del genere che dopo uno smette, e dice ci ho pensato, sono bravo, IO sono un buon essere umano; no, ti arriva tutta, la contraddizione, e non per via filosofica, al calduccio, con quelli che acquistano il libro per adempiere ad un impegno-valium per la propria coscienza (l’ho detto, sto nel mucchio – e spero sia un grande mucchio, spero che molti leggeranno questo libro, va bene anche se lo prendono alla biblioteca, meglio se lo comprano, così lo rileggono, molto meglio.)

La notizia della liberazione di Kobane, no, non ancora, sì, ci siamo, no, sì, giugno 2015? Luglio, prima, ancora morti…

…” che sono otto mesi dopo il viaggio al confine turco siriano che stava nella pagina prima.

Oh giuro che è stata davvero un’emozione grossa grossa.

Una cosa fuori registro, rispetto ai sentimenti cui siamo abituati.

Una cosa che non hai mai vissuto, non di questo tempo. Dei tuoi nonni, al massimo.” (Fondo nero scritta bianca)”

… (Fondo bianco scritta nera.) “Poi però sono successe tutte le altre cose.

Il resto della nostra vita qua.

Sempre in bilico tra corse, impicci, imbrogli e accolli.

Ho traslocato in una casa più grande.

È morto Derek in Grey’s Anatomy. Un sacco di gente intorno a me si è riprodotta.”

. Molto prima, c’era stata la domanda:

“Ma tu andresti a vivere a Kobane”

In: http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/11/news/zerocalcare_kobane-137248052/

Dialogo con l’amico Mammut.

“No, Tu mi guardi negli occhi. E mi dici che davvero ti trasferiresti qua”

“Beh, caro amico Mammut

ci sono momenti in cui vorrei essere un poeta (…)

Col cazzo…..Porcoddue! So’ di Rebibbia, non vivrei manco a Colli Aniene! Mi potrei mai trasferire in Rojava! E su!”

Il libro, la storia, <senza figure>, come si dice, non lo so raccontare. Ci starebbe anche un po’ di musica (qui). Voi, però, comprate il libro. E leggetelo, bene, più volte. Tornateci su.