In questa storia, soltanto gli dei sono reali

Neil Gaiman, “American Gods”, Oscar Mondadori

Traduzione di Katia Bagnoli

 

Avvertenza per i viaggiatori”: così inizia la storia. Una anomala forma di disclaimer, con la quale l’autore definisce il genere – narrativa – cui appartengono le pagine che seguiranno; nonché ciò che, in tali pagine, trova corrispondenza nella realtà – ad esempio alcuni luoghi – e ciò che non possiede tale corrispondenza. E conclude affermando:

Va da sé che tutte le persone vive o morte, nominate nel libro, sono frutto della mia immaginazione, oppure usate in modo immaginario. Soltanto gli dei sono reali.”

Segue un citazione, che Gaiman ricava da “A theory for American Folklore”, in “American Folklore and the Historian”, University of Chicago Press, 1971, dell’antropologo Richard Dorson; si tratta di una domanda, che Gaiman ha fatto sua, e da cui è scaturito, ritengo, il desiderio di cimentarsi con l’invenzione di questa storia.

«Mi sono sempre chiesto che cosa succeda agli esseri di natura divina quando gli emigranti lasciano la terra natale. Gli americani di origine irlandese ricordano le fate, quelli di origine norvegese i nisser (…) ma soltanto in relazione a eventi legati al paese di origine. Un giorno, quando domandai perché in America non si avessero notizie di questi esseri, le mie fonti ridacchiarono confuse, prima di rispondere: “Hanno paura di attraversare l‘oceano, è troppo lontana l’America” e poi mi fecero notare che qui, in fondo, non erano venuti nemmeno Cristo e gli Apostoli”»

Un piccolo accenno alla storia.

Il dio Odino è deciso a scendere in guerra, radunando intorno a sé altri antichi dei che gli immigrati avevano portato con sé nel Nuovo Mondo, dove tuttavia erano stati più o meno dimenticati, e dove le loro esistenze si erano fatte precarie, vite ai margini.  Odino ritiene che una guerra si renda necessaria, pena la sparizione totale, la morte – perché sì, anche gli dei possono morire se nessuno li onora e li riconosce – per mano di nuovi, moderni dei – delle droghe, della televisione, divinità “dei computer e dei telefoni e cose così” mentre “tutti sembrano credere che non ci sia posto per entrambe le categorie.

Così, Odino “assume” alle sue dipendenze un uomo, un tale Shadow, uno appena uscito dal carcere. Si presenta a lui sotto il nome di Wednesday, un  tipo molto molto particolare. Un po’, anzi molto, equivoco. Pure se la sua appartenenza ad un mondo “altro” è subito evidente.

Shadow non potrà rifiutare l’incarico: sarà il segretario di Wednesday, per lo svolgimento, ben pagato, di lavori non ben definiti.

Non è facile convincere alla lotta antichi dei abbandonati, che si sono rifugiati ognuno in una propria nicchia di vita, ai margini di un mondo in cui la loro storia non ha messo radici profonde, dove nuove divinità, a loro ostili, prendono vita, fortificate da masse di seguaci.

“La regina di Saba, mezzo demone, si diceva, per parte di padre, la maga, strega e regina che governò su Saba quando Saba era la terra più ricca mai esistita al mondo, con le sue spezie, e le gemme e i legni profumati trasportati via nave e a dorso di cammello in ogni angolo della terra, colei che in vita veniva adorata come un divinità, venerata come una dea (…) alle due di notte guarda il traffico senza vederlo dal marciapiede di Sunset Boulevard: una sposa di plastica vestita da puttana su una torta nuziale nera e fluorescente. È in piedi, padrona del marciapiede e della notte che l’avvolge. (…)

È stata una lunga notte.

È stata una lunga settimana e quattromila lunghi anni.”

Occorre una strategia. Si rendono necessarie tattiche speciali. Gli dei hanno bisogno di sacrifici e le armi, oh le armi, ognuno ha la propria.

Occorrono alleati. E vittime sacrificali. Più o meno.

Oh ma attenzione. Occorre conoscere tutta la storia, non le favolette del genere Columbus day. Occorre conoscere lontani tempi del mondo e delle divinità – le storie di antiche migrazioni, di glaciazioni e di nuove terre dove “scorreva acqua limpida e dove pesci argentei nuotavano in abbondanza nei fiumi, una valle popolata da cervi che non conoscevano l’uomo ed erano talmente mansueti che prima di ucciderli si doveva sputare e chiedere perdono al loro spirito.”

Romanzo classificato “Urban fantasy” (leggo, mi dicono). Una favola, io direi. E anche no. In parte. Il percorso della storia nel mondo, più o meno reale, nega la qualifica e, ebbene sì, la storia è talvolta anche sgradevole. Molto: vuole esserlo. Il libro non lo è, mai.

Mount Rushmore National Memorial. Foto del National Park Service Image Gallery

Una favola americana. Un mondo luna park degli dei, quale solo gli U.S.A. possono ospitare, Chicago e Oklahoma, Lakeside e Mount Rushmore

“Quello lì (…) è un luogo sacro” (…)

“So che era un luogo sacro per gli indiani.”

“È un posto sacro. (…) è così che fanno le cose in America: hanno bisogno di dare alla gente una scusa per pregare”.

“Conoscevo un tipo, una volta. (…) Mi aveva raccontato che gli indiani dakota, i più giovani, scalavano la montagna mettendosi uno sulle spalle dell’altro fino a che l’ultimo potesse pisciare sul naso del presidente.”

 …dove vita guerra morte si alternano, salendo e precipitando su montagne russe, dentro tunnel degli orrori, cimiteri popolati di morti viventi; e dei si radunano al dolce suono del Walzer dell’Imperatore sulla giostra a cavalli: lirismo dai colori pastello in un fumettone dai bagliori accecanti, nel più godibile kitsch americano.

L’irritazione, che talvolta afferra il lettore perché gli dei, tutti, hanno sempre peccato, dall’Olimpo in poi, per infima buona creanza e inciviltà nei comportamenti – ne sono, di diritto, l’antitesi. Niente noiosa buona borghesia, tra di loro; una scompostezza, invece, che tuttavia scompare, ma proprio lì lì, a un passo dal disgusto, travolta da ampi scorci di poesia e di bellezza.

Odore di putrefazione, inevitabilmente associato alla vita che continua, ininterrotta.

Non può essere che così: un lieve horror fiabesco, sognante. Una favola è  dopotutto ambedue le cose, sempre; in ogni favola c’è il pericolo, il mostruoso, la violenza, inscindibile dalla bellezza, dalla bontà, dal lieto fine (purché ci si intenda sul termine “lieto” e si scordino i dettagli). Ci sono il lupo mannaro e la mela o le monete d’oro, profumo di fiori e di putrefazione. Sempre insieme. Come nella vita. Che – dice la favola – vale sempre la pena di essere vissuta; e si risolve, sempre, in vita.

Neil Gaiman

Neil Gaiman è, e a modo suo, un narratore di favole – alternative, improbabili (beh! Non proprio: nessuna favola è “improbabile”. Ogni favola è unicamente “vera”, a modo suo).

Dovremmo forse interrogarci su cosa sia “favola”. Oggi, le categorie di favola, fiaba, mito, leggenda, e perché no, narrazioni variamente appartenenti a, legate al, folclore, più o meno locale, più o meno condiviso da popolazioni di un’area locale, nazionale o anche sovranazionale,[ii] chiedono una ridefinizione, a seguito di profonde contaminazioni nei generi – nulla di strano, in un mondo la cui regola (come sempre è stato, per la specie umana) è  il meticciato tra culture (“mescolarsi per non ammazzarsi”, ha detto qualcuno; forse era Levi Strauss) senza di che la nostra specie difficilmente avrebbe potuto espandersi e dominare il pianeta  – e tralascio qualsivoglia riflessione sul fatto che ciò sia stato un bene: il meticciato tra culture lo è stato sicuramente, oltre ad essere connaturato al concetto stesso di cultura.

E dunque, dev’essersi chiesto Neil Gaiman, come evitare, anzi, come non curiosare nel necessario meticciato tra favole, fiabe, miti, leggende e, sicuramente non ultimi, dei e varie forme di religiosità.

Il libro provoca, anche, una serie di domande, su questo e su quello, per ricchezza di riferimenti. Mi ha incuriosito, in particolare, l’antropologo Richard Dorson, a me sconosciuto, da un cui scritto Gaiman ha tratto la domanda che ho citato all’inizio e che apre il libro. Ho trovato un suo unico libro pubblicato in italiano.

Suo, un interessante concetto, espresso dal termine “Fakelore”:

Con esso l’autore designò il folklore inventato e presentato come autenticamente tradizionale, riferendosi in particolare all’epopea del West nordamericano, ove abbondano pesanti rielaborazioni di personaggi storici o autentiche invenzioni di personaggi storicamente verosimili a fini commerciali. (…) Il fakelore assume quindi, per definizione, un aspetto di falsità più o meno premeditata, in quanto un’aura di “tradizione” viene attribuita a qualcosa o a qualcuno allo scopo di promuovere la vendita di un prodotto, che sia un alimento, una festa locale o un’opera d’ingegno.” (Wikipedia, alla voce Fakelore)

Ora, attendo che mi venga recapitato “Il folklore in America”, di Richard Dorson, traduzione di Elisabetta Battista, Edizione Storia e Letteratura, 1964. Il mercato dell’usato, per fortuna, vive e lotta con noi. Magari ne uscirà qualcosa di interessante da raccontare.

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ii] Ad esempio Halloween, celebrazione di origine celtica (ma la storia delle sue origini è complessa),  che si è estesa quantomeno a buona parte del mondo occidentale, subendo variazioni che ne hanno modificato, fino a oscurarlo, il significato originario, dando luogo anche a qualcosa di assimilabile a un genere narrativo horror, a uno sviluppo spurio del romanzo gotico ottocentesco.