La scelta di un libro

John Steinbeck, 1962. Da: Wikipedia

È stato un strano agosto.

Accumulo libri, attese di lettura che chiedono il giusto momento per venir apprezzate. Accumulo letture che apprezzo ma che, trascorso il breve tempo necessario a completarle, mi lasciano insoddisfatta. C’è qualcosa che non va, o forse manca qualcosa, nei nuovi libri che sto incontrando; qualcosa che non mi porta, se non in pochi casi, il desiderio di darne una restituzione.

Incontro cose già lette, storie che, sotto nuove apparenze, ripetono paradigmi noti. E penso che, certo, è anche l’età che porta con sé un ridotto interesse per temi in altri tempi di grande fascino.

Avete presente gli oroscopi? Beh, come gioco di società, c’è stato un tempo in cui, incontrandoli, mi divertivo e non disapprovavo (o molto poco) il giornale che li proponeva: bisogna pur vendere; per non dire dell’acquisto giocattoloso a Capodanno delle previsioni annuali: ci poteva stare, in quanto fonte di beneauguranti previsioni, come i bigliettini della fortuna nel biscotto al ristorante cinese.

Tempo fa mi è avvenuto di commentare con l’amica di turno che mi invitava a prendere in considerazione le mie stelle di nascita che no, non lo potevo fare, neppure per gioco. Le stelle, per loro natura, pare si interessino ai destini di una sola fascia di età fornendo indicazioni su temi esclusivi: il lavoro (già dato, sono pensionata), la salute (sono anziana, i medici imperversano nei miei dintorni; so già tutto e ci fumo sopra), l’amore e la ricerca dell’anima gemella (non è davvero il caso). Anziani e bambini risultano esclusi dal gioco delle stelle.

Ora, non penso possa accadermi proprio proprio la stessa cosa con i libri ma è certo che, quantomeno per, vogliamo dire, le nuove proposte editoriali, sto forse divenendo molto selettiva, difficile da accontentare.

Non vi trovo il lascito di un nuovo pensiero, l’indicazione di un percorso, di una deviazione che orienti verso nuove destinazioni; che apra domande, nel cui possibile universo tuffarmi, e nuovi orizzonti – per me, per il momento di vita che sto attraversando; per il tempo che sto, stiamo, vivendo; per far sorgere un desiderio, o intravedere una possibilità.

Chiedo troppo a un libro? Come ogni lettore, credo; ognuno a suo modo, per la propria irripetibile vita e i propri unici tempi.

C’è, sicuramente, un piacere anche nella buona lettura che appartiene alla categoria del passatempo, dell’intervallo da interporre in ogni attività: solo (o quasi) un piacere come un altro, sempre, o quasi, interrompibile da un piacere diverso: una fetta di torta e un caffè, due chiacchiere senza impegno, una passeggiata in centro a guardar vetrine; un puzzle, la settimana enigmistica o un solitario, magari proprio con il mazzo di carte, fisico, da maneggiare. Cose così.

Poi penso: sperimento e attribuisco al libro una mancanza che sta in me? Ho reso responsabile il libro per l’assenza di domande che <io> non so più cogliere? E metto dunque nel debito conto la possibilità che il problema stia dalla mia parte.

Il libro è, tuttavia, una bacchetta da rabdomante; si tratta di impugnarlo nel modo giusto. Da qualche parte, le cose che cerco si trovano; esistono giacimenti infiniti, ricchi come la vita, mai saturabili.

Mentre chiudo, dunque, pagine che mi hanno intrattenuta ma nulla di più, la bacchetta sta insistendo a indicarmi il luogo certo in cui trovare l’acqua, da seguire fino alla fonte, fortunatamente inattingibile, attraverso percorsi carsici, o per incontrare altri percorsi, o un lago – al termine dovrebbe starci il mare, ma non fa parte delle vite individuali raggiungerlo, e per fortuna.

Alle nostre spalle, il tempo ha selezionato libri che hanno resistito al suo trascorrere, che resistono ai mutamenti della storia, delle culture umane, alle loro varietà. Tra questi, come in ogni comunità che si rispetti, ci sono libri-genitori e libri-figli, portatori di età diverse. I più longevi – gli eterni, dal punto di vista del nostro breve tempo – attingono alla struttura del mito, della fiaba. Qualcuno si è costituito in religione, con esiti diversi.

All’estremo opposto vi stanno, con peraltro pregevoli risultati, i libri che appartengono al proprio tempo, che ne possiedono il gergo e una forte appartenenza culturale. Che ne sono i testimoni.

Ora, il nostro è un tempo segnato da rapidi mutamenti, un tempo segnato da appartenenze culturali incerte, provvisorie – segnato dalla paura. Altri tempi lo sono stati, persino peggiori ma abitati da appartenenze più certe, meno globalmente anomici.

È un tempo per libri che lo possano superare, che abbiano alla base la struttura che accomuna, pur senza necessariamente rivelarlo, il mito, la leggenda, la fiaba; è il tempo dei cantastorie.

Come si individuano questi libri? È facile: sono quei libri che verrebbe voglia di leggere ad alta voce ad un piccolo gruppo; di ascoltare da una voce, in compagnia. Sono i libri che possiedono la struttura del racconto, del parlato – si va dalla breve novella alla saga senza fine, non fa quasi differenza.

Italo Calvino

Dalle antiche fiabe a “Il nome della rosa”, dunque; transitando attraverso l’Italo Calvino di “I nostri antenati”, ma va benissimo, ottimamente, la voce di John Steinbeck che narra; che, anzi – lo dice lui, nella dedica – racchiude in una “scatola” da donare al suo amico editore Pascal Covici, con la Valle del Salinas, tutto ciò che possiede. Quasi.

“(…) C’è dentro quasi tutto quello che ho, e non è ancora piena. Ci sono dolore ed euforia, momenti buoni e momenti cattivi, pensieri buoni e cattivi…Il piacere del progetto e un po’ di disperazione e l’indescrivibile gioia della creazione. (…)

Eppure non è ancora piena.”

Mentre sto frugando nella scatola, ancora una volta, e non sarà l’ultima, sto arrendendomi a libri assegnati alla categoria “per ragazzi”; e sto andando a spulciare nei classici che mi sono perduta quando ero bambina perché, all’epoca, nel mondo cui appartenevo, non facevano parte del pacchetto prescritto (e pubblicato) dalla cultura del tempo.

Ed ecco, c’è la canadese Lucy Maud Montgomery (1874 – 1942) con “Anne di Tetti Verdi” (una saga, in effetti, meglio nota a partire dal titolo “Anna dai capelli rossi” della versione anime trasmessa dalla TV italiana nel 1980) la cui protagonista Mark Twain definì “la più cara e la più toccante ragazzina dall’immortale Alice”.

C’è poi, di Astrid Lindgren, il bellissimo “Ronja, la figlia del brigante”. C’è Selma Lagerlöf (1858 – 1940), prima autrice insignita del Nobel per la letteratura, 1909), e i racconti della raccolta “La leggenda della rosa di Natale”, pubblicato da Iperborea 2014; per non dire di “Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson attraverso la Svezia”.

Anne of Green Gables, copertina edizione originale, 1908

Ecco, c’è un elemento di grande interesse, per me, in questi libri, e sta nel confronto, da rapportare al tempo in cui sono stati scritti, tra realtà sociali diverse che, ora lo capisco, hanno reso quei libri purtroppo non “adatti” a venir proposti nella realtà culturale italiana della mia infanzia.

Innanzitutto, sono libri che hanno come protagoniste delle “bambine” (da Pippi Calzelunghe, a Anne, a Ronja) dentro società rurali che prevedevano (ma anche no), come da noi, comportamenti femminili casalinghi, dediti al rispetto delle regole religiose, e un futuro di mogli e madri, senza tuttavia che per questo non fosse prevista la loro educazione fino al college, così come la loro capacità di occupare ruoli economici e sociali (brigantaggio e pirateria compresi) alla pari con i maschi.

Che dire: figurette femminili vincenti. Temo che, ancor oggi, pur in presenza di una rappresentazione d’ambiente sociale fuori tempo, non sia poco. Senza dimenticare come, al tempo in cui questi romanzi-favola sono stati scritti, la loro rappresentazione veniva proposta in tempo reale, e dunque come modelli di comportamento adeguati, offerti anche con finalità educative.

Non ho ricordi, nel mio tempo di bambina, di letture di autrici italiane. Venivano proposti il Collodi di “Pinocchio”, l’Edmondo De Amicis di “Il Cuore” ed Emilio Salgari con i suoi pirati della Malesia. Nessun libro aveva quale protagonista “una bambina”; e per dirla tutta, nessuno di questi era autore di libri indirizzati <anche> alle bambine. Erano, tutti, Salgari in primis, autori per bambini, maschietti; non vietati alle bambine, immagino, ma non proposti. E io so bene di non averne, al tempo, condiviso la lettura con le mie amichette.

Certo, sto parlando di tempi storici, di un’infanzia del secondo dopoguerra. Ma sto parlando di autori – i nostri, maschi – e autrici – le altre, le straniere – appartenenti al medesimo tempo storico.

Non ho memoria di narrativa italiana al femminile, con protagoniste bambine; solo, un po’ più avanti, delle storie per “signorinette” in attesa di marito – Liala, Carolina Invernizio – peraltro ammesse ma certo non suggerite dalla mentalità corrente: diciamo che la guerra e il dopoguerra avevano “favorito” una qualche smagliatura nel controllo sociale sulla giovane popolazione femminile.

Di favola in favola, e per chiudere, mi sono tuttavia molto goduta un vecchio libro la cui lettura mi mancava:

Mark Twain, “Uno yankee alla corte di Re Artù”, Traduzione di Oriana Previtali, disegni di AntonGionata Ferrari. Carlo Gallucci editore 2011

Sono davvero tanti i modi di godere di una favola, anche lunga, irriverente e tragicomica, sempre contemporanea: come va che un affabulatore di fine ‘800 possa farmi ridere attraverso pagine che richiamano, con piglio giornalistico, fatti e personaggi del mio oggi?