Molto rumore per nulla? A lieto fine

J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli anelli. Parte I. La compagnia dell’anello”, Bompiani 2019

Prefazione di J.R.R. Tolkien. Traduzione di Ottavio Fatica

 

Lettura senza sosta di un libro a lungo atteso: la nuova traduzione, di Ottavio Fatica, del capolavoro di Tolkien: per ora, della sua Prima Parte.

Ora – dopo una lettura segnata dall’ingordigia e, sicuramente, dalla difficoltà che sorge “tradendo” un vecchio amore (inevitabili, dovuti e “colpevoli” i confronti!) provo a restituire alcune impressioni, da lettrice.

Inizio con un piccolo omaggio alla nuova traduzione: con alcuni versi di un canto hobbit che sento buono per questo momento.

La Strada s’en va ininterrotta

     A partire dall’uscio ove mosse.

Or la strada ha preso una rotta,

     Che io devo seguire come posso,

Perseguirla con passo solerte,

     Fino a che perverrà a un gran snodo

Ove affluiscono piste e trasferte.

     E di poi? Io non so a quale approdo.[i]

 

È così. Non so, davvero, a quale approdo. Nei tanti significati che i versi suggeriscono.

Quando usciranno i prossimi due libri – “Le due torri” e “Il ritorno del re” – non mancherò di aggiungerli a questo primo libro e di completare l’opera a favore dei miei scaffali. Ma, confesso, non so ancora se, nelle mie abitudini di lettura, questa nuova traduzione sostituirà davvero, e come sostituirà, la precedente.

La traduzione di un libro viene fruita in massima parte da lettori che, come me, non possono accedere al testo originale; che, dunque, non potranno valutarne la qualità in termini di adesione, testuale e non solo, all’intendimento del suo autore, a tutte le specificità culturali che ne segnano l’appartenenza ad un tempo e ad un luogo, alla visione del mondo che ogni lingua e ogni tempo portano con sé. Verrà sempre fruita da lettori che non potranno vedere gli, credo inevitabili, e spesso voluti, “tradimenti” che il traduttore –  incatenato e insieme libero nel dover adattare il testo di partenza alla lingua e al mondo di arrivo – sceglierà di operare.

È un fatto: noi leggiamo e, gli occhi sulla pagina, dimentichiamo l’opera di traduzione, destinata quasi sempre a rimanere tanto più invisibile al lettore quanto migliori saranno stati i risultati. Godiamo della lettura nella nostra lingua e assegniamo all’autore del libro l’intera bellezza delle sue pagine. Come dev’essere se, e solo se, il traduttore avrà compiuto l’opera sua.

Ora, da lettrice, la cui visione del mondo dipende – e non è un’iperbole – in molta parte dai traduttori, posso solo parlare delle emozioni (non tutte, non sempre, gradite) che questa prima lettura mi ha regalato – altre ne seguiranno, le emozioni cambieranno, magari assumendo, chi lo sa, rovesciamenti di segno inattesi.

La porta d’accesso alla Terra di Mezzo, e il primo sguardo del lettore sul mondo che si appresta a conoscere, sono i versi che presentano gli Anelli del Potere; che, in questa edizione, vengono posti in apertura, come un anomalo esergo, anticipando persino la Prefazione di J.R.R. Tolkien (finalmente scomparsa l’Introduzione di Elémire Zolla).

Tre anelli al Re degli Elfi sotto il cielo,

    Sette ai Principi dei Nani nell’Aule di pietra

Nove agli uomini mortali dal fato crudele,

    Uno al Nero Sire sul suo trono tetro

Nella terra di Mordor dove le Ombre si celano,

    Un Anello per trovarli, Uno per vincerli,

    Uno per radunarli e al buio avvincerli

Nella Terra di Mordor dove le Ombre si celano.

 

Ed ecco i versi che la mia memoria temo non lascerà:

 Tre Anelli ai re degli Elfi sotto il cielo che risplende,

    Sette ai Principi dei Nani nelle lor rocche di pietra

Nove agli Uomini Mortali che la triste morte attende,

    Uno per l’Oscuro Sire chiuso nella reggia tetra

Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra nera scende.

    Un Anello per domarli, Un anello per trovarli,

    Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli,

Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende

 

Personalmente, confesso, ho provato una fitta al cuore. Dolorosa. La memoria ha recuperato istantaneamente i versi noti, quelli che, ad ogni casuale richiamo, mi hanno fatto riaprire questo libro, anche solo per una visita a qualche sua parte; spesso per una completa rilettura, priva di soste, che trovava pace solo alla chiusura del libro, nelle parole di Sam Gamgee:

«Sono tornato», disse”

Ho riposto grandi speranze in questa nuova traduzione, soprattutto per le parti in versi, per tutte le “canzoni” con cui gli Hobbit narrano di sé, danno voce alle proprie emozioni, vivono momenti di allegria; con cui gli Elfi narrano i miti dei loro popoli, rievocano amori, guerre, grandi dolori e grande bellezza. E non posso dire di essere rimasta delusa, se non in qualche misura.

In alcuni (molti?) casi ho apprezzato la nuova traduzione; in altri meno, o per niente. Ma ci sta.

È risultata invece per me centrale la (non gradita) rivisitazione dei nomi di alcuni personaggi, e dei luoghi. Si tratta di una rivisitazione che per Ottavio Fatica pare aver costituito un punto d’onore, su cui anche ha basato la qualità del proprio lavoro. Lungi da me metter bocca: non ne ho le competenze e tuttavia.

La cosa sarà certamente di grande interesse per un manipolo, necessariamente ridotto, di specialisti.

Anche un contenuto raggruppamento di critici professionali sarà grandemente interessato al tema.

Dopodiché, è stato certo giusto e doveroso accostarsi al compito di tradurre con tutta la cura e la competenza che il caso richiede anche nell’interesse del comune lettore; ai cui occhi, si suppone, il libro è soprattutto destinato.

Sospetto infatti che la casa editrice desideri fortemente che il libro ottenga il successo di vendite che merita, appagando certo il piccolo gruppo di grande competenza ma ottenendo anche che i vecchi, appassionati lettori, vedi la sottoscritta, siano motivati ad acquistare la nuova versione; e che nuovi lettori accedano, a frotte, a queste pagine.

E dunque: siamo sicuri che sostituire il nome Billy Felci con Bill Felcioso, sia fondamentale, giustificando il sussulto del vecchio affezionato lettore? Che il soprannome “Grampasso”, con cui abbiamo incontrato la prima volta Aragorn, guadagni qualcosa ad essere tradotto con “Passolungo”?

L’arrivo alla locanda “Il cavallino inalberato” di Omorzo Farfaraccio comporta per il lettore un ulteriore inutile sussulto, degno di miglior causa; perduto per sempre il ritorno felice a “Il puledro impennato” di Omorzo Cactaceo: è stato come rientrare a casa propria e scoprire che sono stati cambiati i mobili; che non c’è più quel tappetino consunto, o quel tavolino, un po’ instabile e ricco di ricordi…

Chiaro: il tutto sarà stato frutto di scelte perfettamente motivate e, addirittura, “alte”; che tuttavia, in molti casi, paiono risolversi in: sinonimi, o giù di lì?

E a parte tutto, “inalberata” si dice di una bandiera oppure, in senso figurato, di una persona cui sia saltata la mosca al naso. Ho controllato: è vero, anche di un cavallo che “si impenna” si può dire che “si inalbera”: possiamo concordare che si tratta di un uso del verbo quantomeno desueto?

È stato davvero fondamentale sostituire il nome Pipino Tuc con Pippin (che nome è?) Took? Che dire di Merry Brandibuck divenuto Brandaino?

Mai più arriveremo alla casa di Elrond a Gran Burrone! Divenuto una qualunque Valforra.

Cose di poco conto. Nel tempo, defunti i vecchi lettori, una nuova generazione avrà conosciuto questa storia con i nuovi nomi e ad essi appenderà le proprie emozioni.  Senza, peraltro, domani come oggi, aver contezza alcuna (o anche sì, ma senza darvi molta importanza) delle importanti giustificazioni linguistiche che li sostengono.

I lettori sono, per la maggior parte, così: semplicemente innamorati del mondo in cui un libro, e questo in particolare, li conduce. Come dire: leggono il libro, non lo studiano. E, come ho accennato in precedenza, quanto meglio è tradotto tanto meno, in prima battura, in corso di lettura, coglieranno la fatica, l’impegno, la competenza del traduttore. Ingiusto: ma è così.

Ora, il cambiamento di qualche nome non può essere così importante, mi si dirà. Ed è vero. Come è vero che, per qualunque lettore, la qualità della traduzione è fondamentale, tanto da venir notata se, e solo se, la si sia giudicata scadente (ma come saperlo, a meno che, di quel libro, non sia stata letta in precedenza una diversa traduzione – cito ancora il bellissimo “Puck il folletto” di R. Kipling che ho amato solo dopo averlo letto nella traduzione di Ottavio Fatica).

C’è invece, ed è fondamentale per il lettore, il testo della storia. La traduzione, per l’appunto.

Ed ecco la sorpresa. Le due traduzioni, mi si perdoni se lo dico, sono altamente sovrapponibili. Totalmente sovrapponibili, direi, all’interno delle normali variazioni (posizioni degli avverbi, variazione nella scelta di sostantivi o verbi, tranquilli sinonimi) con cui due parlanti, o due scriventi, tradurrebbero nella propria lingua la medesima frase.

La prova? Terminata la lettura di questo Primo Libro, al mio solito, non ho saputo fermarmi ed ho proseguito nella lettura delle altre due parti (in traduzione Alliata) senza avvertire alcun salto significativo tra le due traduzioni.

Qualche esempio a spizzico.

Incipit:

“Questo libro tratta in larga parte di Hobbit e dalle sue pagine il lettore scoprirà molto su loro carattere e un poco della loro storia. Altre notizie si possono trovare anche nella scelta dal Libro Rosso della Marca Occidentale già pubblicata con il titolo Lo Hobbit. Quella storia è ricavata dai primi capitoli del Libro Rosso, composti da Bilbo in persona…”

“Questo libro riguarda principalmente gli Hobbit, e dalle sue pagine il lettore imparerà molto sul loro carattere e un po’ della loro storia; ulteriori informazioni potranno trovarsi nel Libro Rosso dei Confini Occidentali già pubblicato con il titolo Lo Hobbit. Questa storia è tratta dai più antichi capitoli del Libro Rosso, scritto da Bilbo in persona…”

Ancora.

Capitolo V: “Una congiura mascherata”

“Adesso faremmo bene anche noi ad andarcene a casa” disse Merry. “È chiaro che c’è qualcosa di strano in tutto ciò, ma ne riparleremo più tardi.

Scesero giù per il viale del Traghetto, un viale dritto, curato, bordato da grandi pietre imbiancate. Dopo un centinaio di passi circa giunsero alla riva del fiume…”

“Adesso faremo bene a tornarcene a casa anche noi” disse Merry. “C’è qualcosa di buffo in tutto questo, me ne rendo conto; ma dovrà aspettare che rientriamo”.

Presero il viottolo del Traghetto, dritto, ben tenuto e costeggiato da grandi pietre imbiancate. Dopo un centinaio di metri si ritrovarono in riva al fiume…”

 

Capitolo X

 “(…) Frodo si allontanò remando dalla riva e il Fiume li condusse via rapidamente lungo il braccio occidentale, oltre le minacciose rupi di Tol Brandir. Il ruggito delle grandi cascate si fece più vicino. …”

“(…) Frodo si staccò pagaiando dalla riva e il Fiume li trascinò via rapidamente lungo il braccio occidentale e oltre gli accigliati scogli di Tor Brandir. Il ruggito delle grandi cascate si fece più vicino. …”

 

Ovvio, dopotutto. Quello è il testo, quella la storia – “minacciose rupi” o “accigliati scogli” a parte.

Ma le cose non stanno del tutto così. Le differenze, rilevanti, intendo, ci sono sicuramente.

Prima o poi le troverò: probabilmente ad opera completata.

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[i] Nella traduzione Alliata che, credo con qualche evidenza, risulta meno armonica, il testo è questo:

La Via prosegue senza fine

Lungi dall’uscio dal quale parte

Or la Via è fuggita avanti

Devo inseguirla a ogni costo

Rincorrendola con piedi alati

Sin all’incrocio con una più larga

Dove si uniscono piste e sentieri.

E poi dove andrò? Nessun lo sa.