Del novellare in tempo di peste: continua…

Peste del 1656. Wikipedia

La frase di prammatica è: da dove comincio?

La risposta, scontata: diciamo dall’inizio

Prima giornata

Prima novella: narratore Panfilo

Il protagonista della prima novella, di professione notaio, è uomo specializzato in false testimonianze, spergiuri, frodi, così come uso a trovar piacere nella violenza e persino nell’omicidio. Quel che si dice una brutta persona, felice di esserlo e sicuramente utile a chi avesse bisogno di condurre affari disonesti senza farsene carico.

“Avea oltremodo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedea seguire tanto più d‘allegrezza prendea. Invitato a uno omicidio o a qualunque rea cosa volonterosamente v’andava (…)”

“ (…) egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse”

Ogni novella inizierà con una breve sinossi che, talora, avrà a che fare con (si fa per dire) una morale che la storiella, a mo’ di parabola, dovrebbe insegnare, talaltra con l’esito di una furbizia atta a trar dai guai qualcuno, non sempre, o quantomeno molto a modo suo, meritevole di ciò.

Sempre di un insegnamento si tratta, sembra dire l’autore, sulle cose del mondo, sui tanti modi possibili di condursi e, perché no, su qualche utile difesa dagli incontri o dagli accadimenti che ognuno, o ognuna, potrebbe, vivendo, dover affrontare,

Dopotutto, anche alcune furbizie, e persino alcuni comportamenti intelligenti, risulteranno utili se conosciuti; soprattutto dalle “amorose donne…”, così chiamate non solo dai loro tre cavalieri ma anche, reciprocamente, dall’una o dall’altra compagna quasi a marcare (meglio: senza il quasi) una qualche ammissione in merito alle possibilità di svago che la vacanza in campagna sottintende.

Oh dio, sette fanciulle con tre giovanotti, non ci siamo; tanto più se i tre sono, come paiono, già accaparrati da una amorosa presente nel consesso. Mi fossi trovata al posto di una delle tre già impegnate, avrei invitato almeno un quarto uomo a far, in questo caso, sia da arbitro sia da guardalinee e, non ultimo, da giocatore libero.

Ho avvisato: mi sto dedicando a una lettura fuor da “scuola”: come peraltro credo debbano esser state intese e lette, al loro comparire, queste novelle, alla faccia di tutti gli apparati critici finalizzati, alla fin fine, a sterilizzarne la piacevole giocosità, la pettegola furbizia e una elevata malizia.

Si apre un quesito divertente: che faccio, “spoilero” Giovanni Boccaccio?

Sia mai! Ma anche sì. Dopotutto, non si può dire che l’opera sia alla sua prima edizione.

 Vedrò di contenermi. Se vorrete conoscere nel dettaglio le novelle ve le dovrete leggere. Ma insomma, prendendo a tema la prima novella (poi l’impegno, per oggi, è di contenermi maggiormente) si tratta di questo.

Sinossi d‘apertura dell’autore:

“Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.”

Trionfo della morte. Palazzo Sclafani. Galleria Regionale di Palazzo Abatellis, Palermo (1446). Affresco staccato. Wikipedia

Questa pessima persona (peraltro nota, pare, o quantomeno protagonista di una storia che aveva, nella cronaca, volendo, esempi precisi e nomi individuabili), sta morendo lontano da casa, in quel di Parigi, mentre è ospite di conoscenti che, se non avessero provveduto ad assicurare al morente la dovuta assistenza religiosa, temevano di venir gravemente criticati, e di subire con ciò un danno sociale di non poco conto.

Per altro verso, quegli stessi ospiti ritenevano che nessun sacerdote, chiamato per la bisogna, avrebbe potuto assolvere un tal uomo dai suoi peccati. Temevano anzi che sarebbero stati rifiutati i funerali religiosi, esponendo ulteriormente i suoi ospiti ad una pesante disapprovazione sociale: come giustificare l‘aver accolto un tale uomo nella propria casa?

Senonché il morente che, avendo “l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo aver gli infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano”, rassicurò i propri ospiti: non temessero, avrebbero solamente dovuto procurargli un bravo e santo fraticello. Poi, avrebbe provveduto lui a recitar la parte del santo.

Dopotutto, poiché le sue azioni e la sua vita gli avevano già abbondantemente assicurato la discesa all’inferno, nulla gli sarebbe costato l’aggiungere ai propri peccati anche quello di una falsa confessione: peraltro molto divertente.

Risultato – e morale della storia – a causa dell’ammirazione che la sua vita suscitò nel fraticello che ne raccolse la confessione, l’uomo fu sepolto con tutti gli onori e seguito da una folla che lo voleva santo subito o giù di lì.

Morale della storia: il nostro eroe fu, da lì in poi, venerato come santo, cui chiedere e da cui ottenere grazie; e il buon Dio ha ricavato dalle di lui malefatte un di più di fede del suo popolo, che ha avuto in regalo un valido esempio di perfetta vita cristiana.

Ma tu vedi! C’è di che riflettere a lungo su questa storia, ma la somma eleganza del tutto sta nel fatto che il racconto non fa (esplicita) ironia sull’accadimento e lascia allegramente al lettore tutta la sua responsabilità in merito.

Vi è molta più compostezza nel ridacchiare a lungo che in una grassa esplosiva risata.

Questa, come ogni altra novella, appare improntata ad una grande eleganza delle apparenze che dovrà fare da contrappeso a contenuti degni della maggiore vergogna morale possibile, per conseguire il risultato di una sarcastica, pesante condanna, mascherata da lieve ironia.

A meno che non si voglia accedere ad una lettura esattamente inversa, e leggere in queste storie solo una lieve ironia finalizzata a consentire l’accoglimento, tra uomini e donne di mondo, di qualsivoglia fragilità umana, sempre ipocriticamente riconducibile, tra consorterie complici, ad una forma che ne salvi le apparenze – ovviamente, a questo punto, rendendo inefficace il giudicarle per ciò che sono.

Tanto più se, ed è questo il caso, ci penserà Dio a ricavare comunque un bene da comportamenti che <solo> la limitatezza del giudizio umano giudica pessimi, suggerendo nel contempo come ad ogni regola vi sia una via di fuga.

In chiusura, e a suggello del tutto, l’autore fa infatti dire a Panfilo che si è a conoscenza di molti miracoli ottenuti da chi si era raccomandato a san Ciappelletto e che, pentitosi in extremis, egli potrebbe, in effetti, trovarsi, beato, nel Regno di Dio: e tuttavia, il parere del narratore propende per il suo probabile trovarsi nelle mani del Diavolo, pur se varrà sempre la pena di raccomandarsi a san Ciappelletto – come dire: male non fa – per essere ascoltati a aiutati.

Di che riflettere dicevo, sulla modernità, ma sarebbe meglio dire sulla persistenza in aeternum dei sofismi su cui si regge il potere temporale della Chiesa; sull’intesa (collusione parrebbe forse termine eccessivo?) tra tale potere e una società che, oggi come ieri, ne segue, formalmente, i dettami in modo tale che non sia richiesto un distinguo tra forma esteriore e sostanza.

Il fraticello, ma anche il popolino, nella novella appaiono, e vengono ritenuti, in buona fede mentre i bisogni legati al mantenimento del potere mondano, la permanenza stessa di quel potere, dovranno, di necessità, prescindere da tale fede, come da ogni obbligo morale.

Diremmo oggi: bisogna pur far girare gli affari, bisogna pur far girare l‘economia, se non vogliamo il crollo dei sistemi che reggono società complesse “con grave danno dei cittadini” (sic!).

Sarà poi utilmente posto a carico di Dio il come risolvere la contraddizione – sia pure attribuendogli la gherminella logica che ci viene presentata con tanta ironica nonchalance.

La seconda novella sarà narrata da Neifile, cui viene chiesto di proseguire a divertire il gruppo, che molto già aveva riso della santità di Ciappelletto, fugando ogni dubbio, se mai ve ne fossero stati, nel merito.

Non volendo eccedere con lo spoiler, e tuttavia a conferma della temperie culturale in cui Giovanni Boccaccio vive e scrive, in un momento storico che vede grandi cambiamenti sociali in atto, la crisi dell’organizzazione sociale che aveva connotato il tempo dei Comuni, il formarsi e il rafforzarsi delle Signorie, la stessa crisi del Papato, esiliato ad Avignone  – e non sarò io a poter argomentare scrivendo su questo complesso periodo – la seconda novella darà il colpo di grazia al tema.

Ne propongo solamente la sinossi dell’autore.

“Abraam giudeo, da Giannotto di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e, veduta la malvagità de’ chierici, torna a Parigi e fassi cristiano.”

Aggiungo una sola osservazione: Boccaccio propone quali protagonisti di questa novella due mercanti, un ebreo e un cristiano, rappresentati ambedue come persone per bene; in particolare Abraam viene indicato come persona di alta levatura morale.

La novella è dunque, nei suoi protagonisti, speculare alla prima, e ne rappresenta, in questo modo, il sigillo interpretativo.

Tutto si concluderà, ancora una volta, a gloria di Dio, attraverso una sofisticheria che, oltrepassando ogni ironia, raggiunge il più esplicito sarcasmo – espresso, con pieno soddisfatto sorriso e sorniona sicumera da madonna Neifile.

Lettura interessante. Dolorosamente divertente.