Ancora una volta, non sottoscriverò quanto segue

“Ho fatto un sogno: ho sognato, per un attimo orrendo, di possedere un grande fusto di ferro dove porre i miei libri e dar loro fuoco…per la mia salute mentale.”

Ho scritto queste parole, quasi distrattamente, en passant, a Benny, di “Il verbo leggere”, all’interno di un commento a una sua recensione molto interessante (qui).

E   Benny ha risposto: “Oh, dovrai analizzare a fondo questo sogno (mi aspetto un eventuale post”). Ed eccomi qui.

Mi accorgo, infatti, nella veglia, a tempo trascorso, e grazie anche a Benny, che l’immagine non era del tutto peregrina.

Questo confinamento che, per quanto ridotto, perdura, e accartoccia su se stessi anche i libri, oltre alle persone. Perché libri e persone, libri e relazioni, libri e vita – infine: libri e socialità – non si possono disgiungere.

C’è di più. Anche i libri, mi pare, hanno a che fare con il corpo, costituiscono una relazione che passa attraverso i sensi – e, tra questi, il tatto non è l’ultimo. Che razza di relazione è mai quella in cui non ti tocchi, né una stretta di mano né un abbraccio, né un bicchiere offerto o accettato o, appunto, un libro che passa di mano; nessuna pagina, di cui condividere la lettura, con il suo angolo piegato e forse (non diciamolo, ma) segnata dal dito inumidito di saliva.

Ora, da tempo, e sempre più, io leggo in e-book, causa affaticamento della vista che mi rende difficile la pagina a stampa, spesso caratterizzata da un corpo dei caratteri troppo piccolo; mentre acquisto pure la versione cartacea dei libri che mi ritrovo ad amare, e non rinuncio comunque a non almeno scorrerli, per sottolineare – e non li so lasciare del tutto privi di commenti a margine (con discrezione, a matita, oltre che con una calligrafia che rapidamente diventa illeggibile a me stessa).

Nel frattempo, incrementando l’invasione cartacea dei miei spazi di vita, cerco un pensiero su come ridurla; mentre mi chiedo che ne sarà dei miei libri, di molti dei quali, in effetti, potrei agevolmente liberarmi, senza riuscire a farlo.

Il tema vero, che inizia ad essere un pensiero ricorrente, non è, dunque, cosa fare del mio accumulo di libri, di cui non so liberarmi; il tema è cosa sarà di loro quando io non ci sarò più e loro non potranno, per quanto amati, trovar casa tutti, ma proprio tutti; non ci sarà casa per molti che, in effetti, forse, non la meritano; ma che hanno ospitato un tempo, una speranza, una attesa, per quanto deluse; che ricordano le diverse persone che sono stata; e sono, anche solo perciò stesso, non so bene cosa.

Spero, certo, che una qualche biblioteca li accolga ma ugualmente temo, per molti di loro, le fosse comuni, il macero. E se poi, riordinando (o fingendo di farlo, come sempre accade) mi ritrovo tra le mani il mio vecchio, semidistrutto Fahrenheit 451, il gioco è fatto.

C’è qualcosa di esaltante, a suo modo costruttivo, nel fuoco; una specie di salvezza rituale – distrutto un corpo materiale (di qualcuno-qualcosa) rimarrà, purificata, indelebile, una memoria, perenne, fintantoché ci sarà qualcuno a ricordare.

Siate uomo, Mastro Ridley; noi accenderemo quest’oggi tale candela, per grazia di Dio, in Inghilterra, quale io confido nessuno potrà spegnere mai!”.[i]

Ed ecco il sogno.

Nessun altare. La location: un grande parcheggio vuoto (che banalità! Almeno avrebbe potuto essere la cima di una collina, uno spiazzo d’erba circondato dal verde, una pietra-altare su cui poggiare un bacile). L’officiante: io; di fronte ad un grande fusto – nero, unto, dalle pareti ondulate, di quelli che contengono petrolio, almeno nell’immaginario, non credo di averne mai visto uno nella realtà; …e certo ci sarebbero voluti più fusti e molti falò per far fuori tutti i libri, ma nel sogno non l’ho pensato.

Nel sogno, dico, era prevista una cernita? …vale a dire che, forse, non li avrei bruciati proprio tutti? Ecco, non lo so. Il contesto era: bruciare i miei libri, e null’altro.

Cile, 1973 (Wikipedia)

Mentre mettevo bracciate di libri nel fusto non c’erano tuttavia libri intorno a me. Ed era bello, ringhiante ed entusiasta, il ruggito del grande falò! Che, nel sogno, c’era, ma che io non avevo acceso.

Ora, nella veglia, “Fahrenheit 451”, il libro che, forse, ha indotto il sogno, ha cambiato di segno. Per una nuova prima volta, (dopo il risveglio, durante il giorno il sogno ritornava con la sua domanda; e ritornava la rivisitazione del libro) mi è parso di finalmente capire davvero Guy Montag, il pompiere piromane protagonista; il primo Guy Montag, l’uomo che era stato prima dell’incontro con Clarisse Mcclellan:

 “Ho diciassette anni e sono pazza. Mio zio dice che queste due cose vanno sempre insieme”.

Ricordate questo libro? (qui)

“Era una gioia appiccare il fuoco.
Era una gioia speciale veder le cose divorate, vederle annerite, diverse.”

Eppure, l’orrore, per chi legge, trova una spiegazione che non esclude l’amore per i libri da parte di chi li brucia; mentre la storia presenta il convivere di due scelte divergenti originate da una identica appartenenza alla civiltà del libro.

La differenza: è quella che esiste tra la speranza e la rassegnazione; o forse tra l’illusione e il riconoscimento di una realtà.

Un tempo i libri si rivolgevano a un numero limitato di persone, sparse su estensioni immense. Ed esse potevano permettersi di essere differenti. Nel mondo c’era molto spazio disponibile, allora. Ma in seguito il mondo si è fatto sempre più gremito di occhi, di gomiti, di bocche.
(…) Il moto si accelera notevolmente. I libri si fanno più brevi e sbrigativi. Riassunti. Scelte. Digesti. Giornali tutti titoli e notizie, le notizie praticamente riassunte nei titoli. Tutto viene ridotto a pastone, a trovata sensazionale, a finale esplosivo.”

“(…) Basta seguire l’evoluzione della stampa popolare: Clic! Pic! Occhio, Bang! Là! Qua! Su! Giù! Guarda! Fuori! Sali! Scendi! Uff! Clac! Cic! Eh? Pardon! Etcì! Uh! Grazie! Pim, Pum, Pam!”[ii]

Come spesso accade, un profeta ci ha preavvisato, ma non lo abbiamo ascoltato. Peggio: abbiamo ascoltato con occhi ciechi e orecchie sorde. Abbiamo applaudito senza capire. Non abbiamo ritenuto che ci riguardasse.

Ray Bradbury scriveva intorno al 1950. Il successo che il libro ebbe internazionalmente è stato dovuto anche al riconoscimento di ciò che stava avvenendo nella società occidentale: al tempo il vecchio eurocentrismo pareva ancora reggere e non ammetteva critica alcuna; l’Occidente riteneva di essere <il Mondo>, circondato da pezzi sparsi che non contavano se non come oggetti da rapinare e soggetti per pelose beneficienze.

E il mondo, nella sua totalità, era abitato da <sole> 2.480.000.000[iii] persone, a spanne un terzo di oggi, e forse meno.

Ecco. Non so. Oggi la pandemia ci chiede di praticare il distanziamento: umorismo nero. Mentre oggetti a stampa (scusate se li chiamo così; non tutto ciò che è costituito da pagine stampate, costrette all’interno di una copertina, sono <libri>) invadono i nostri spazi, vengono gettati, ci si sente bravi in quanto civiltà dei rifiuti il cui compito essenziale diventa raccoglierli e accatastarli in ordine – carta… plastica… lattine… libercoli vari et similia.

I miei Libri rimarranno con me, fino alla fine. Oppure chissà. Non so, dovrei costituire una commissione per dar luogo a una expertise che scelga – qualcosa come dare una sbirciata a cosa avverrà quando non ci sarò più – cosa salvare cosa condannare.

Ammetto, con immediatezza, che non accetterei la sentenza e tutto, nella mia casa, vorrei continuasse come prima. Nessun distanziamento dai e dei libri, nessuna cosiddetta economia circolare sul tema. Meno che mai un rogo. L’accumulo quasi-compulsivo di libri continuerà finché la vista mi reggerà e pure a seguito.

Ma tra il vivere confinati, limitando i rapporti, le occasioni e i modi della socialità, e il saper bene di un mondo dove, impacchettati come sardine, sarà inevitabile finire, se già non lo siamo, omologati, qualche domanda, non in sogno, dovremmo porcela; del tipo: …e che ci farà un libro, il massimo momento dell’individualità, da scambiare e condividere e confrontare, in tutto questo?

Preferisco non guardare oltre.

Talvolta fantastico, in questo caso ad occhi aperti, e sempre sulla scia di Ray Bradbury, amerei impegnarmi a scegliere un libro, e non necessariamente una grande opera, solo un libro al momento importante per me, e impararlo a memoria. Fantastico su di una piccola biblioteca di grande valore che, un libro più un libro più un libro, resti con me; che se ne dovrà andare con me, senza bisogno di discarica alcuna, con un bel falò, rituale, per l’appunto; perché, a ben vedere, potrebbero non essere molti i libri necessari ad una singola vita individuale. E non dovrebbe valere il leggerli una sola volta, proprio no.

Talvolta penso che, se davvero amassi i miei libri, ne possiederei meno, lasciando che siano le biblioteche e le librerie a divenirne le chiese, ad essere curate e ad aver cura dei lettori. Chissà: quando un bene è troppo disponibile, reperibile a prezzi stracciati; quando un bene non ci chiede più il tempo e la fatica di venir desiderato, non ci chiede più di venir meritato, perde valore; e la moneta cattiva scaccia quella buona.

E le librerie?

A inizio 1950, quando Ray Bradbury (e sicuramente non solo lui) ci ha avvertiti, lo abbiamo applaudito e abbiamo pensato a quanto eravamo intelligenti, noi che amiamo i libri, noi che mai li bruceremmo – ed erano ancora molto, troppo recenti le immagini dei falò nazisti, in una nazione che più di ogni altra li aveva prodotti, amati, curati e cullati. Nel mentre, in America operava, dal 1873, la New York Society for the Suppression of Vice, sciolta proprio nei primi anni ’50, che propugnava il dare alle fiamme i libri ritenuti immorali (credo non sia mai potuta arrivare a tanto ma ha svolto con impegno il suo sporco lavoro). Vent’anni dopo abbiamo assistito a roghi di libri nel Cile di Pinochet: tanto per stare a fatti noti, e non così estranei, come forse crediamo, alla nostra cultura occidentale.

Chiudo: ancora una volta sottoscrivendo tutto questo con riserva.

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[i] Ray Bradbury, “Fahrenheit 451”

[ii] Ray Bradbury, idem

[iii] Da: http://www.storiologia.it/tabelle/popolazione01.htm