“… e nemmeno un rimpianto.”

Qualcosa su Edgard Lee Masters.

 La collina

 “Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,

l’abulico, l’atletico, il buffone, l’ubriacone, il   rissoso?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Inevitabile, dopo aver letto l’ultimo Alice Basso, riaprire Antologia di Spoon River. E, in tal modo, riaprire un tempo cui questo libro è appartenuto, e un percorso, che ha accompagnato, che ha contribuito ad indicare.

I libri sono mappe; non le sole, certo; sono mappe gli incontri, le relazioni che, avendo indelebilmente segnato la nostra strada, non ci lasceranno per la vita. Non presenti al ricordo, risponderanno sempre al richiamo; e se saranno stati persone-libro, verranno subito, riconoscendo la nostra voce e la domanda inespressa.

Perché tutti, libri e persone, stavano solo dormendo. Almeno fintantoché ci sarà ancora qualcuno che li richiamerà. A raccontare. A mostrare, ancora, uno, tanti percorsi.

Sono curiosi i percorsi carsici che compiono i libri: grandi fiumi, dalla piena potente, si assottigliano, scompaiono, e nessuno li vede più, solo un lontano ricordo che, un bel giorno, riemerge, piccolo rivo nascosto, che lentamente ingrossa, e riprende a narrare.

Uno trapassò in una febbre,

uno fu arso nella miniera,

uno fu ucciso in rissa,

uno morì in prigione,

uno cadde da un ponte lavorando per i suoi   cari –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Sarà poi sufficiente un aggettivo – ed ecco risvegliarsi il ricordo: di un pezzo di strada percorso con qualcuno, di un sentiero che, quel giorno, abbiamo intravisto; che abbiamo imboccato, ed è stato allora che tutto…o qualcosa… e accadono le domande:

 Dove sono Ella, Kate, Mag, Edith e Lizzie,

la tenera, la semplice, la vociona, l’orgogliosa, la felice?

Tutte, tutte, dormono sulla collina.

Una morì di un parto illecito,

una di amore contrastato,

una sotto le mani di un bruto in un bordello,

una di orgoglio spezzato, mentre anelava al suo ideale,

una inseguendo la vita, lontano, in Londra e Parigi,

ma fu riportata nel piccolo spazio con Ella, con  Kate, con Mag –

tutte, tutte dormono, dormono, dormono sulla collina.

Gente, incontri, storie, che la gente racconta, o sussurra, preferendo che la lapide non dica; voci che invece vogliono parlare, raggiungerci, dirci di sé: e di noi.

Voci che sono famiglia, e non importa di chi, perché ognuno conosce i suoi dormienti. Nessuno dimentica davvero le voci, pure se vorrebbe che altri non le udissero. Segreti? Non proprio; solo cose che è bene ricordare nel silenzio, insieme ad altre, encomiabili, da celebrare, fatti della Storia, che poi chissà.

 Dove sono zio Isaac e la zia Emily,

e il vecchio Towny Kinkaid e Sevigne Houghton

e il maggiore Walker che aveva conosciuto

uomini venerabili della Rivoluzione?

Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Perché i fatti della storia hanno molte facce, e hanno lacrime, tante lacrime di un tempo di cui è buono, pur se doloroso, ricordare; che ora tacciono, dormono. Nel silenzio.

Perché questo tale dà loro voce? È un poeta, dice lui, e lo deve fare. Sta tra noi per ascoltare le nostre voci e restituirle. Anche se fa male.

Li riportarono, figlioli morti, dalla guerra,

e figlie infrante dalla vita,

e i loro bimbi orfani, piangenti –

tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina.

Che poi, tra i tanti sentieri, ce n’è uno – ogni villaggio, ogni comunità ha il suo – disturbante nella sua capacità di fottere l’infelicità, di sfidarla e vincerla – dice lui, o non dice ma tant’è. Che forse ci vuole della cattiveria per percorrerlo, senza prendersi cura di alcuno, rallegrandosi con le note di una, di tante canzoni. Il sentiero giusto per una lunga vita?

 Dov’è quel vecchio suonatore Jones

Che giocò con la vita per tutti i novant’anni,

fronteggiando il nevischio a petto nudo,

bevendo, facendo chiasso, non pensando né a

  moglie né a parenti,

né al denaro né all’amore, né al cielo?

Eccolo! Ciancia delle fritture di tanti anni fa,

delle corse di tanti anni fa nel Boschetto di Clary,

di ciò che Abe Lincoln

disse una volta a Springfield.

Fu una lunga vita, quella del suonatore Jones, senza dire che sia stata facile, che sia stata sempre, o almeno talvolta, una vita bella.

Per noi, la riscrittura, bellissima, di Fabrizio di André, che fa dire alle stesse parole, e a nuove parole, diversamente assemblate, qualcos’altro – la poesia, ognuno la riscrive per sé, e il suonatore Jones potrà avere malinconia nella canzone che dice – davvero? – di nessun rimpianto.

Avviene, che una poesia, una musica, un quadro, diventino luogo comune fino alla dimenticanza del testo – che sempre chiede la riscrittura di ognuno, pena lo scomparire, pena il ridursi a inchiostro che sbiadisce, di cui non resterà segno.

Il suonatore Jones

La terra ti suscita

vibrazioni nel cuore: sei tu.

E se la gente sa che sai suonare,

suonare ti tocca, per tutta la vita.

Che cosa vedi, una messe di trifoglio?

O un largo prato tra te e il fiume?

Nella meliga è il vento; ti freghi le mani

perché i buoi saran pronti al mercato;

o ti accade di udir un fruscio di gonnelle

come al Boschetto quando ballano le ragazze.

Per Cooney Potter una pila di polvere

o un vortice di foglie volevan dire siccità;

a me pareva fosse Sammy Testa-rosa

quando fa il passo sul motivo di Toor-a-Loor.

Come potevo coltivare le mie terre,

– non parliamo di ingrandirle –

con la ridda di corni, e fagotti e ottavini

che cornacchie e pettirossi mi muovevano in testa,

e il cigolio di un molino a vento – solo questo?

Mai una volta diedi mano all’aratro,

che qualcuno non si fermasse nella strada

e mi chiamasse per un ballo o una merenda.

Finii con le stesse terre,

finii con un violino spaccato –

e un ridere rauco e ricordi,

e nemmeno un rimpianto.

Strano poeta Edgard Lee Masters. Uno a modo suo.

Uno che ci ha provato: a lasciare il paese, il piccolo mondo capace di rappresentare il Mondo, e tutti noi.

1868 – 1950. Ci ha provato, Edgard Lee, ad andarsene da Lewistown, Contea di Menard, piccolo paese sulle rive del fiume Spoon.

Figlio di un avvocato, dopo un tentativo fallito di diventare giornalista in quel di Chicago, si rassegnò ad associarsi allo studio del padre. In seguito, aprì un proprio studio. Sempre inseguendo la scrittura, e in particolare la poesia con la quale, va detto, è difficile vivere, anche negli USA, temo.

Aveva pubblicato le sue poesie, ad una ad una, nel giornale locale, dal 1914 al 1915, per infine vederle divenire un libro, “Antologia di Spoon River”. Un grande successo. Riconoscimenti.

Non dal paese, proprio no, dei cui abitanti aveva raccontato le storie che tutti conoscevano e che, dunque, e come dovunque, dovevano rimanere taciute. I panni sporchi, con quel che segue.

Si sposò, ebbe tre figli, divorziò. Si risposò. Fallì anche il secondo matrimonio, credo.

Nel 1924 pubblico la nuova versione dell’Antologia (Titolo italiano “Il nuovo Spoon River”, edito da Newton Compton, 1979, per la traduzione di Umberto Capra e Attilia Lavagno) che non fu un grande successo.

Fu allora che decise di lasciare la professione e Lewistown, dove si era inimicato l’intero paese, e trasferirsi a New York, progettando di vivere della propria scrittura. E scrisse, senza sosta, per tutta la vita: poesia, sempre, ma anche opere teatrali, almeno un romanzo, fidando sulla rendita che gli proveniva dall’Antologia e sul successo, che mai si ripeté.

Morì nel 1950 per una polmonite, solo e in povertà, aiutato economicamente da amici, in una camera di hotel.

Fernanda Pivano, 1949. Wikipedia

In Italia, la pubblicazione dell’Antologia di Spoon River ha una data, 1943, e la traduzione un nome, Fernanda Pivano, da associare al nome di Cesare Pavese. Ed è stata una storia editoriale di meritato successo.

È andata così: la giovane “Nanda”, allieva di Cesare Pavese al Liceo D’Azeglio di Torino, ritrovò il suo professore (dopo la sua incarcerazione per l’accusa di antifascismo). Era il 1938, e Pavese, che lavorava alla giovane Casa Editrice Einaudi come traduttore ed editor, prestò alla ex allieva ora giovane amica (e suo amore mai corrisposto) l’Antologia di Spoon River. Lei la tradusse, lui portò il suo lavoro in Einaudi.

Cesare Pavese, 1950. Wikipedia

Sul libro scattò la censura, superata con una furbata nel titolo, divenuto Antologia di S. River (e cosa mai più politicamente neutrale di un supposto San River).

Era la guerra. Ogni pubblicazione un azzardo. Ma oggi Einaudi pubblica ancora la traduzione di Fernanda Pivano.

“Il nuovo Spoon River” fu pubblicato in Italia da Newton Compton nel 1979 e, ad oggi, è ancora, credo, la sola pubblicazione italiana di un’opera che non fa ombra alcuna all’originale, anche se è ancora reperibile (ultima edizione, credo, 2010)

Il mio vecchio testo del ’79 è qui, accanto a me, praticamente intonso. Non mi è mai andato di regalargli più di una veloce scorsa, quasi fosse un tradimento. Forse sbaglio, ma va così.

Di Edgard Lee Masters resta unicamente l’originale, irripetibile “Antologia di Spoon River”. Tutto ciò che serve.