Viaggiare, in tempo di pandemia

Patrick Leigh Fermor, “Tempo di regali. A piedi fino a Costantinopoli: da Hoek van Holland al Medio Danubio”. Adelphi 2009 (4ª edizione). Traduzione di Giovanni Luciani

Ora, è trascorso più di un anno da quando la mal-aria che in cui viviamo è iniziata. E siamo chiusi in casa, con qualche improvvida uscita a richiamare la catastrofe, che vale l’illusione, forse, ancora per poco, forse.

Un anno fa mi era parso di potermi affidare all’espediente di una fuga di gruppo in campagna, dove dedicarsi a novellare; nella condivisione virtuale di amene storielle pettegole, con l’aiuto di Boccaccio, confidando nella fine della Peste: ricordando Firenze, anno 1348. Settecento anni fa.

Oggi è divenuto imperativo riprendere a viaggiare. Non possiamo attendere oltre. E potremo farlo solo con il soccorso, ancora, di pagine che ci portino altrove.

Da un po’ di tempo sto leggendo il primo volume di una trilogia, di una storia di viaggio le cui pagine mi terranno occupata a lungo.

Avevo trascurato questi libri e questo autore, Patrick Leigh Fermor (1915 – 2011) maestro e amico – leggo di lui – di Bruce Chatwin, (1940 – 1989); di cui leggo che è stato definito, nel 2007, “il più grande scrittore di viaggi vivente del Regno Unito”.  

E di questo mi riconosco colpevole: quanto tempo perduto senza conoscere queste pagine incredibili! Sono ormai certa che diverranno per me un viaggio da non chiudere, una fase di vita, un tempo segnato da una di quelle letture che lasciano il segno, giungendo ad orientare i nostri giorni.

Da tempo non mi accadeva di imbattermi in un libro che, ne sono certa, se l’avessi letto nell’età del possibile, avrebbe persino potuto dare un diverso aspetto e, per qualche verso, un diverso indirizzo ai miei giorni. E mentre sono pure contenta che tutto ciò non sia accaduto (perché voglio molto bene a ciò che, nella mia vita, ho realizzato, e non ci potrei mai rinunciare) lo ammetto: sono affascinata; pur sapendo che mai più potrò prendere la strada, una mia strada, a piedi e, passo dopo passo, guardare e vivere il mondo, incontrandolo, sempre passo dopo passo, ad occhi aperti. 

Da qualche tempo sto leggendo questo primo di tre libri, la prima parte di un viaggio che, iniziato all’età di diciott’anni, condurrà l’autore, a piedi, da Londra a Costantinopoli: era il 1933.

Il viaggio durerà fino al 1937, e sarà un viaggio che, con i luoghi, gli incontri, le esperienze del narratore-protagonista, porterà il lettore a vivere terre e mondi, i tempi e le genti della Storia, vivendo dentro la storia; a condividere un percorso di conoscenza e di crescita; un percorso di formazione; anche quando – è il mio caso – quel percorso parrebbe doversi considerare compiuto.

Queste pagine ci accompagnano a vedere, assaporare, vivere un ascolto capace di coinvolgere tutti i sensi, mentre il pensiero accoglie il mondo, nel silenzio dello stare con sé e nel piacere dell’incontrare.

Sarà, è, una lettura lenta, che chiede di accompagnare il viandante narratore al suo passo: e per la prima volta, o così pare a me, non sento, né sarebbe, credo, possibile, sentirla, la fretta del volgere la pagina, dell’avanzare.

Alcuni versi in esergo porranno subito il contesto, a partire dal Frammento XXVII di Petronius Arbiter: un viatico

Lascia la tua casa e cerca lidi stranieri

O giovane! Per te comincia una più grande serie di eventi.

Non cedere alle sventure: te conoscerà il lontanissimo Danubio

E il gelido Borea, e i pacifici regni dell’Egitto,

E quelli che vedono Febo sorgere e tramontare.

L’uomo di Itaca giunga più grande nelle terre straniere[i]

“Tempo di regali” !1977) è il primo di tre libri che narrano questo viaggio-iniziazione. Seguiranno: Fra i boschi e l’acqua“(1913) e “La strada interrotta” (1915).

Il risvolto di copertina di questo primo libro ci dice che:

Munito solo di uno zaino da alpinista, un vecchio cappotto militare, scarponi chiodati, l’Oxford Book of English Verse e un passaporto nuovo di zecca che gli attribuisce la professione di studente (anziché, come avrebbe auspicato, quella di vagabondo), nel dicembre del 1933 Patrick Leigh Fermor abbandona Londra e una carriera scolastica sciagurata e ribalda. Ha appena diciotto anni, vaghe ambizioni letterarie, ma un progetto nitido e grandioso: attraversare l’Europa a piedi come un palmiere o un cavaliere errante e raggiungere Costantinopoli – la «Bisanzio verde drago» di Robert Byron, «ossessionata dal serpente e tormentata dal gong». Quando vi arriva, il 1° gennaio 1935, è ormai un altro: non solo si è lasciato per sempre alle spalle disastri e misfatti, ma ha sviluppato una rara forma di nomadismo – viaggiare simultaneamente nello spazio e nel tempo – e l’arte, ancora più rara, di trasmetterlo agli altri. Che contempli lo splendore barocco dello Schloss Bruchsal o le nodose mani dei contadini fra cipolle tagliate, caraffe sbeccate e pane integrale; che dorma in un fienile steso come un crociato sulla tomba o nel «capanno da caccia» del leggendario barone Pips Schey a Kövecses; che percorra il Reno su una colonna di chiatte che trasportano cemento o attraversi Vienna offrendosi come ritrattista a domicilio; che sperimenti il Katzenjammer, i postumi di una sbornia, a Monaco o elabori la «formula del lanzichenecco» per spiegare l’architettura delle città tedesche prebarocche; tutto ci appare il dettaglio di un fantasmagorico affresco, tutto sembra ricomporsi in un gigantesco puzzle dove risorge, come un’emanazione di incredibile e accattivante splendore, il passato dell’Europa. (…).”

356 pagine; Il libro è il resoconto della prima parte del viaggio, del percorso e delle esperienze che porteranno il nostro giovane “vagabondo” in prossimità di Budapest.

Quanto a me, ho finora attraversato l’Olanda, paese che non ho mai conosciuto, ritrovandomi a desiderare di poterne vedere i canali, il paesaggio; di conoscerne la gente; di incontrare dal vivo la pittura fiamminga.

In un inverno di gelo ho percorso lungamente la Germania, abitando palazzi, vivendo l’ospitalità contadina alla buona; frequentando locande, alternando poveri pasti a grandi abbuffate. Ho incontrato la socievolezza della sua gente nel contrasto angosciante con l’avvento, in quei giorni, delle camicie nere, mentre tutta la sua storia mi si rivelava, ancora, nei palazzi, nei paesi, nella pittura; dal Reno al Danubio, nei boschi, ho ripercorso la Storia, le storie, dal Sacro Romano Impero alla guerre, di religione e non; ho incontrato una geografia che impregnava di sé le comunità cui aveva dato forma.

Sto camminando, nei boschi dell’Austria, muta al fianco di un ragazzo allegramente ribelle, sorridente, curioso e fiducioso del mondo; in compagnia di un uomo che, molti anni dopo, ha recuperato il tempo del suo viaggio e della sua crescita dai vecchi taccuini, dai diari accuratamente tenuti, e persi, e ricostruiti, per raccontarli arricchiti dall’esperienza di vita e dalla conoscenza.

Il primo libro – “Tempo di regali”, fu pubblicato nel 1977. Fermor fece a tempo a pubblicare il secondo mentre l’ultimo uscì postumo.

“L’hanno fatto per lui, fortunatamente, Colin Thubron e Artemis Cooper, i suoi esecutori letterari: e leggendo di palazzi aristocratici, nottate all’addiaccio e migrazioni di cicogne, esperimenti con l’hashish, chiese bizantine ed eruzioni di ferocia nazionalista non potremo che riconoscere l’inconfondibile voce di Leigh Fermor e la sua capacità di assorbire qualsiasi cosa infondendole profondità storica – e conservando intatto il debordante entusiasmo dei diciotto anni.”[ii]

Patrick Leigh Fermor ha scritto molto. Ha scritto lungo tutta la sua vita. La sua prima pubblicazione è datata 1938. Aveva ventitré anni. Storie di viaggi, di gente.

Eppure, il racconto di questo suo primo viaggio costituisce il suo ultimo lavoro; è stato, forse, un bisogno di fare il punto della propria giovinezza, per divenire poi il suo testamento.

Ha scritto questi ultimi fondamentali libri solo dopo essersi stabilito in Grecia, a Kardamyli, sulla penisola di Mani, nel Peloponneso, in una casa sulle scogliere da lui stesso progettata. E anche del suo nomadismo in questa regione ci ha lasciato un ultimo libro, “Mani”, Adelphi 2006: l’inizio e la fine dei suoi viaggi e del significato della sua vita.

Fermor sembra aver trascorso, nella casa di Kardamyli, una seconda vita con la moglie Joan Eyres Monsell, sposata nel 1968, dopo vent’anni da un incontro che aveva dato origine a una libera e mai interrotta relazione.

Vi rimase anche dopo la morte della moglie, avvenuta nel 2003. Ambedue sono sepolti tuttavia a Dumbleton, dove Joan era nata.

Come il marito, Joan è stata una donna dalla vita intensa, creativa. Fu una fotografa di grande talento. Una sua biografia – di Simon Fenwick, “Joan: la straordinaria vita di Joan Leigh Fermor che mi piacerebbe poter leggere, non è ad oggi tradotta in Italia. Speriamo.

Negli anni del loro matrimonio costituì per il marito un grande sostegno che permise a lui di dedicarsi al recupero di quel primo viaggio che ha deciso della sua vita. Dev’essere stato il suo modo per camminare ancora, ripercorrendo le proprie orme e la propria storia; il modo giusto di farlo per uno “… il cui motto è stato: solvitur ambulando[iii], ossia “camminando ogni problema si risolve” e che quindi non si fermò mai.”


[i] Linque tuas sedes alienaque litora quaere/iuvenis : maior rerum tibi nascitur ordo. / Ne succumbe malis : te noverit ultimus Hister, / te Boreas gelidus securaque regna Canopi, / quique renascentem Phoebum cernuntque cadentem; / maior in externas Ithacus descendat harenas. (qui)

[ii] Dalla quarta di copertina dell’ultimo libro,La strada interrotta

[iii] Solvitur Ambulando è un motto attribuito a Diogene di Sinope che così sintetizzò il disaccordo con il filosofo Zenone e con i suoi paradossi miranti a negare il movimento.

Citato in un articolo, su MarieClaire, che parla della coppia Joan e Patrick Fermor, in occasione di una mostra, al Museo Benaki di Atene, sul lavoro fotografico di Joan Fermor – (qui)