…sed peiora parantur

da Wikipedia, Odissea nello spazio, il Monolite

Il tempo Covid se ne è andato! Siamo tornati alla vita! Normale, o quasi.

Lo so bene, non è vero che quel tempo se ne è andato, non ancora; temo durerà ancora a lungo; temo, temiamo, recrudescenze, varianti, e quant’altro. Ora tuttavia, vaccinati, ci è possibile almeno giocare a far finta che sia vero. E respirare, per il fatto che, almeno un po’, è proprio vero.

<Per> un po’ – ma questo è un pensiero che cacciamo; che ha a che fare con la favola brutta dei cambiamenti climatici, della sparizione delle api, dello scioglimento dei ghiacciai, dell’innalzamento dei mari… Io non lo so come stiano le cose nelle vostre città ma qui, a Treviso, da tempo sono spariti i passeri. Non ce ne sono proprio più, e la mattina nessun cinguettio accompagna il nostro risveglio.

Anche i merli si sono ridotti. I parchi, le (poche) zone verdi sono silenziose. Mancano voci di bambini; e se le aree-gioco sono poche nessuno protesta: a chi dovrebbero servire?

Io, come molti di noi, me ne sto a casa a leggere. A scrivere.

Talvolta mi chiedo: cosa, di cosa, perché.

Perché mi piace. Perché è la cosa che ho fatto in tutta la vita di cui ho memoria. Perché mi aiuta, o almeno così pare a me, a pensare. Mi aiuta a (cercare di, a compiere un tentativo di) dar ordine al pensiero.

Da cui, verrebbe da dire, trovare un filo per dipanare qualcosa; un fare; un’azione, di qualche tipo.

La pandemia pare esser stata l’inizio, incompreso, della crisi. Meglio: l’inizio della consapevolezza della crisi. La comprensione del fatto che non ci sarà un ritorno al mondo di prima. La comprensione che non è il caso che ci si auguri un tale ritorno, a ben vedere.

È stata la dichiarazione di guerra del pianeta al mondo degli uomini?

Potrebbe esser stata il D-Day in cui la nostra terra ha sferrato un attacco massiccio contro di noi: per ottenere una dichiarazione di resa? Per vivere e, nonostante tutto, consentirci di continuare a vivere?

Al suo posto non avrei avuto, temo, tanta pazienza. E non è detto che lei ce l’abbia.

Occorrerebbe, non so, qualcosa come credere in un Dio che, tuttavia, pare restio ad ammettere di aver fatto, con noi, una grande cavolata; di aver rovinato la sua creazione, aggiungendovi un essere che si è detto da sé di esser stato fatto a sua immagine e somiglianza. E insiste in quest’idea, a quanto pare. E fa cose…

Non un dio particolarmente furbo, a ben vedere, ma insomma, ci potrebbe stare. Peccato davvero che non sia così.

La risposta più semplice, lineare, che richiede il minor numero di variabili, e che di conseguenza è quella più probabile, per non dire giusta, è che abbiamo fatto tutto da noi, uno più uno più uno, coesi e compatti; un giorno dopo l’altro nei secoli, senza mai recedere dallo scempio; che ci siamo scelti una scusante – il mito, la narrazione, che meglio ci giustificava: è stato Dio (e ora la maiuscola non è a caso) a dirci Vai! Abbi potere su tutti i viventi…qualcosa del genere. Dovrei andare a controllare le parole esatte, ma insomma – dopotutto, sempre di un relata refero si tratta; di cose, fatti, scritti e certificati da terzi. In sede giudicante, non dovrebbero venir accolte.

Wikipedia: La Bibbia, traduzione italiana di Antonio Brucioli, stampatori Francesco Bindoni e Maffeo Pasini, Venezia 1538

Il bello è che, credenti o meno, abbiamo marciato sempre, tutti, come un sol uomo, diritti verso il baratro, condividendo nei fatti l’assunto: Dio è con noi!

Nel mentre, abbiamo, a nostra volta, scritto libri. Li abbiamo letti. Continuiamo a leggere, a scrivere. Che dire: occorrerebbe scrivere, tirar fuori da qualche tasca, un nuovo “Libro”?

Dopotutto, quello in uso dalla parti nostre, occidente e dintorni, ha poco più poco meno di duemila anni, dovendo dar credito ai ritrovamenti fin qui accreditati, preceduti da una tradizione orale ovviamente inconoscibile.

Che storia! Stabilito che non potremmo mai assegnare colpa alcuna alla Bibbia, né a qualsivoglia altro mito fondativo, per ciò che siamo e per ciò che abbiamo fatto di noi e del nostro mondo (vale a dire, pure se ci credessimo, che non potremo dare la colpa ad alcun “Lui”), una cosa è chiara: lentamente – avendo fissato l’importanza dell’essere un Autore; avendo statuito di essere fatti a Sua immagine e somiglianza – abbiamo preso a nostra volta a scrivere; e a leggere, ovviamente.

Abbiamo iniziato a firmare i testi: Lui l’aveva ben fatto, dopotutto! Perché non dovremmo farlo noi, suoi figli?

Ci avete fatto caso? Così come è avvenuto per la popolazione mondiale, anche la scrittura e la lettura si sono evolute molto lentamente. E se solo da poco più di 200 anni il nostro pianeta ha iniziato a rivelarsi piccolo e ci siamo posti il tema della sovrappopolazione (Robert Malthus, 1798, Saggio sulla popolazione mondiale), nessuno mai ha posto il tema della sovrapproduzione della scrittura e di una sovrappopolazione di lettori, anzi, a tutt’oggi stiamo ancora in grave deficit, sotto quest’ultimo aspetto.

Credo, invece, che il tema, almeno per la scrittura, vada posto.

Tutti noi diamo, giustamente, un grande valore alla lettura. Siamo o non siamo la civiltà del libro? E apparteniamo tutti, comunque la si pensi, alla Religione-Cultura del Libro: proveniamo da una Narrazione condivisa.

Possiamo inoltre dire che, nel nostro tempo – e ovviamente, dico <nostro> con riferimento alla civiltà e alle culture dell’Occidente –, quella che chiamiamo, sia pure con diversi significati, la globalizzazione, sta conducendo le nostre popolazioni a sviluppare modelli identitari condivisi.

Ne deriva che tutto il nostro stare insieme, (che idealmente, ed erroneamente, tendiamo ad assegnare all’intero pianeta), il suo formare comunità differenziate ma capaci di interagire tra loro, darsi delle regole e sistemi di valori più o meno condivisi, discende da un libro: dal <Libro>.

Abbiamo ritenuto la scrittura – e, nel tempo, la stampa – la forma necessaria, se non sufficiente, per divinizzare e imporre le nostre regole.

Diamo forma scritta, attraverso rituali, alle nostre leggi: e solo questo le consacra; non ci rivolgiamo, per avere giustizia, che so, a un vecchio saggio, di volta in volta ritenuto tale dal giudizio di una comunità che in lui si riconosce: richiediamo che ogni norma sia validata, e potremmo dire consacrata, dalla sua forma scritta.  

A partire dal <Libro>, abbiamo via via trasformato il nostro specifico modo di trasmettere cultura, transitando dall’oralità, capace di raggiungere, comunque, gruppi limitati di persone, alla scrittura: divenuta, con la lettura, un bene e un potere a disposizione di ogni singola persona e a disposizione delle masse. Abbiamo inventatol a Scuola. Per tutti.

È stata un’evoluzione lenta; che tuttavia, a un certo punto, ha preso abbrivio in modo inarrestabile.

È (stata) la stampa, bellezza! Che non è composta solo di Libri: è quotidiani, sono riviste, periodici; è burocrazia, documenti, pubblicità; la cui diffusione, la cui varietà – la cui libertà/non libertà – ha trasformato gli individui in cittadini, ha dato forma alle democrazie.

I libri, in tutto questo, occupano un loro posto sugli altari.

Ed è l’editoria, con i suoi addentellati, l’industria di maggior valore in questo nostro mondo; e sta vivendo grandi cambiamenti. La voce, e l’immagine, paiono voler riprendere il proscenio, scalzando la forma scritta.

Per quanto ci riguarda, assistiamo, senza allarme alcuno, alla scomparsa delle edicole: mentre la stampa periodica muta tranquillamente la propria forma, transitando dalla carta all’on-line, quasi si trattasse di un cambiamento privo di vere conseguenze: del genere è necessario che tutto cambi perché tutto rimanga come prima.

L’e-reader sta mutando-ha mutato il nostro modo di lettura; su un altro fronte, l’audio-libro si sta imponendo. Nel contempo, la narrativa sembra accreditarsi solo se possiede le caratteristiche per essere trascritta nel linguaggio cinematografico.

È nato l’e-publishing – impensabile solo qualche decennio fa – che arranca, periferico, cercando, per ora, di non attrarre troppo l’attenzione. Affida, sempre per ora, la prova-qualità dei propri prodotti al democratico giudizio del lettore, dove “uno vale uno”.

La qualità del testo verrà così misurata dalla quantità delle vendite. Fatto che, se tanto mi dà tanto, indurrà un editore professionale a pubblicarlo.

Stanno sparendo gli intermediari accreditati: il giornalista di testata, il critico.

Che fine ha fatto l’intellettuale, il “saggio della montagna” cui la comunità chiedeva lumi (anche scritti, s’intende: dopotutto, almeno l’era Gutenberg vale ancora qualcosa).

Mentre una forte benemerita piccola editoria arranca cercando di sposare la qualità – sostenuta da quale referenza, da quale accreditamento degli opinion maker? Mentre una piccola, e talvolta neppure proprio piccola, editoria d’accatto inonda il mercato di prodotti: vogliamo chiamarli di ultima scelta?

Qualcosa di importante sta accadendo. Non riesco a vederne la forma – non dico finale, beninteso; mi accontenterei di molto meno. Di individuare dei sentieri, un’idea di direzione possibile.

Ci dev’essere il fatto che, generazionalmente, sarà qualcosa cui non mi verrà chiesto di appartenere, e questo può far tutta la differenza.

Ci sta pure che il cambiamento fa sempre un po’ paura e chiudiamo gli occhi, affidandoci a ciò che ci è noto; affidandoci a un brontolio del genere mala tempora currunt.  Chissà perché, è un brontolio che ci rassicura: ci fa sentire aggrappati alla certezza di qualcosa di antico, e dunque stabile, certo; a quel che resta di un latinorum che qualcosa, un tempo, voleva pur dire.

Ciò che sta avvenendo è qualcosa di troppo complesso. Come sempre: me ne vengono domande sparse a caso (sempre controllare il linguaggio! Non vorrei mai scivolare nel turpiloquio).

Ci penserò meglio: se ci riuscirò. E ogni suggerimento è desiderato.

Dal film “L’ultima minaccia”, regia di Richard Brooks, 1952