Ora dovrò scrivere senza sapere, di partenza, dove mai andrò a parare: strumento principe per dar forma ad un pensiero che se ne stava acquattato, indefinito. Da lì, solitamente, si prosegue, si torna all’inizio, si cancella, si aggiunge, si toglie ed ecco: eliminate le prime cinquemila battute, ci siamo.
Stavolta non andrà così. Quantomeno non lo credo: ciò che seguirà saranno pensieri volatili, privi di necessaria connessione. Nulla di più.
Talvolta penso che sarebbe bello far tutto questo parlando, all’interno di un dialogo, di un dare e ricevere ascolto; sarebbe, penso, il modo giusto: per cosa? Sempre per dar forma a un pensiero (di cosa?) che è lì, che forza i limiti per uscire ma è solo fumo, a rischio che un refolo di vento lo spazzi via, lo porti a confondersi con altri pensieri del quotidiano (cosa cucinerò stasera, per cena?).
Forse il buon Socrate aveva ragione, dopotutto, nel repingere la scrittura: solo, non aveva tenuto conto della necessità che – alla fine, diciamo per stadi – sarà ben necessario poter dire ecco, siamo arrivati ad un qui, da condividere, su cui convenire – un <qui> provvisorio; un punto di sosta, sul cui terreno costruire una capannuccia, un luogo della mente ove stare, che permetta, domani – ci sarà un domani? se non mio, di altri? – di affrontare la tappa successiva; o il ritorno sui propri passi, per aggiustare, ancora una volta, un pensiero senza sbocco.
Un <luogo> al cui riparo riprender fiato; dove riporre qualcosa – un piccolo scrigno del tesoro, una riserva per il tempo del bisogno; qualche provvista di lunga durata.
La scrittura. La pagina. Punto di partenza per la tappa.
Mentre scrivo, una sosta – l’interruzione serve pure ad arieggiare la mia stanza impregnata di fumo – che impegno accendendo la TV e orripilando sulle notizie di un telegiornale.
A cosa serve che io sappia, veda, dubiti, mi contorca?
Serve: non lo so il perché. A dotarsi della responsabilità di avere gli occhi aperti, immagino. Almeno un po’. Ad assumere il proprio fardello di colpevolezza. Qualcosa del genere. Per allenarsi a produrre pensieri da cacciare, subito.
Davvero, non so che fare o che dire: dovrei tacere? Parlare d’altro? Costruire storie, come ci fosse ancora spazio per vite individuali slegate dal contesto – fuori c’è aria, ancor fredda, di primavera; c’è verde di prato non ancora rasato, di rami fioriti, le forsythie sono sbocciate e risplenderanno dorate per pochi giorni. Ciliegi rosa, poco ancora e fiorirà l’albero di Giuda quando se ne sarà andata la mimosa.
Nel frattempo, là, e laggiù, e poco oltre, e lontano, si spara – si radono al suolo città, paesi e villaggi. Si uccide, si scempiano morti, si stupra.
Madri vedono figli, cresciuti perché vivano e gioiscano a loro volta dei figli, diventare assassini, come fosse normale, sapendo che <è> normale, abituale, e mentre, tra strage e strage, orripiliamo per la notizia di cronaca quotidiana – c’è stato un omicidio nella “città di K”, la polizia indaga – ancora, diversamente, orripilo anch’io di un orripilare diverso: si commenta, e se l’omicida di turno, per il femminicidio di turno, è uno straniero ci sarà un doppio triplo apriti cielo all’ennesima potenza.
Famiglie piangono per il figlio, la figlia, morti; per il figlio divenuto assassino – e di là ancora famiglie gioiscono per il figlio assassino tornato dalla guerra da eroe, o semplicemente, per loro fortuna, vivo. Assassino.
Una nuova generazione di maschi assassini – maschi, sì. Figli di donne che hanno dato al mondo assassini. Che moriranno in guerra. Che torneranno a casa e guadagneranno (o anche no, ma fa lo stesso) una diagnosi – disturbo da stress post traumatico – assassini per sempre, incapaci di esserlo e incapaci di estirpare da sé la violenza appresa. “Mati de guera”.
Quante generazioni senza guerra dovremmo poter avere (e sarà mai possibile?) perché sia cancellata una millenaria trasmissione culturale che, di padre in figlio (di madre in figlia?) produce figli assassini – che ordinano la guerra – che inviano in guerra – cui obbedire?
Nel frattempo si fanno cose, si vede gente, si mangia, si dorme. Si ride. Si bisticcia. Si lavora. Si vive.
Si scrive. E la cosa richiede, per quanto vaga, la messa a fuoco di un tema – potrebbe andar benissimo anche un “Era una notte buia e tempestosa”: Snoopy non sbaglia mai.
Dentro la testa gironzola un pensiero – non a fuoco, certo – che incontra altri pensieri – vaghi; inframezzati dal vivere: cosa cuciniamo per cena, stasera?
C’è, nel cranio (nel cuore, nello stomaco, nella pancia, a strizzare le budella) qualcosa che chiede di poter accedere a una messa a fuoco, per dotarsi di un assetto logico che dia forma di pensiero, a quanto sta accadendo – solo un modo per illudersi di aver il controllo: di cosa, non sarà mai importante. Per poter dire la nostra, sul social prescelto. Per inveire con le armi della certezza: vi par poco?
Ho in mente qualcosa che dice: ma insomma, leggiamo tutti – noi, loro, gli altri – gli stessi libri; abbiamo elevato a livello di esemplarità un buon pacco di storie condivise, a partire dai miti sull’origine del mondo e della specie umana – sull’esistenza di piccole o grandi “divinità” da conservare dentro il nostro familiare “cassetto dei miracoli” – a casa mia si chiama così quel luogo dove vanno a intrupparsi cose senza uso, cose rotte, pezzi di spago, un santino e due vecchie fotografie di non si ricorda più chi, ma vedi, c’è anche il bisnonno.
Cose sacre, nostra storia: piccoli giochi rotti, rimasugli di sorprese di ovetti kinder. Tessere disperse di puzzle, qualche macchinina a retrocarica non più funzionante; mollette per la biancheria e doppioni di figurine Panini.
Nonna ci ha infilato un rametto di olivo della domenica delle Palme.
Una irrinunciabile pietas della nostra vita.
Ai bambini piace frugare nel “cassetto dei miracoli”. E sono certa che quel cassetto è un luogo presente in ogni cellula sociale umana – fin da quando vivevamo nelle grotte.
Da dove giunge, dunque, quella strana cosa per cui, pare, abbiamo pareri diversi al punto da ammazzarci, ognuno in nome della propria – diversa? – verità (Meglio dire di un concreto interesse? …discorso lungo, ma forse, trovando le parole, anche no).
Economie e strutture sociali diverse, religioni che confliggono spacciando ognuna la propria favola di massima uguale-uguale a quelle altrui – ad esempio, assolutamente coesa sul fatto di derivare dal diktat di un Dio Padre il dover riservare un posto speciale alle donne (più o meno pessimo; importante che sia speciale. Nessuna vera discordia su questo punto).
Come va che, tra tutte queste diversità, ci sia una concordanza tanto stretta? Tale per cui, pur nella diversità delle lingue e delle strutture di pensiero sottostanti, gli uomini (gli appartenenti alla specie umana) siano sempre stati in grado di parlare, e capirsi, gli uni con gli altri?
Impossibile scannarsi e riappacificarsi in assenza di una condivisione: di cosa sia un torto, di cosa sia una ragione, necessariamente confrontabili. Di cui si può parlare.
Come va, dunque, che mai si parli delle cose che ci accomunano? Perché è più <normale> parlare di ciò che ci divide? il tutto senza riflettere sul fatto che, per definire un’area di conflitto, è necessaria una sottostante area di concordanza – vogliamo dire sul mondo? Su chi sono io e su chi sei tu; sul fatto che c’è un mio spazio e c’è un tuo spazio; sul fatto che tutti conveniamo su regole che definiscono la distanza e la vicinanza necessarie al vivere comune.
C’è – e come va che non ne teniamo conto? – la Letteratura, quell’accumulo di storie, pensiero, pagine, su cui tutti concordiamo e, sia come sia, nessuno si sognerebbe di dire, in questi giorni, che “Guerra e pace” dovrà essere gettato alle ortiche; o di pensare che, scritto da un russo, sarà compreso solo da un suo connazionale, impossibile da traslare in un’altra lingua perché il mondo, il pensiero, i sentimenti, le norme di vita di un russo sono qualcosa di altro da noi – non so spiegarmi in effetti.
In realtà, qualche idiota si trova; e resto basita dal fatto che gli strali di cui abbiamo notizia abbiano colpito il più “antico”, si fa per dire, Dostoievskji e non, sempre per dire, Tolstoj.
E al di là delle parole: le arti figurative, la musica. Com’è che “concordiamo” – di una concordanza che vale anche nel caso di rigetto di un’opera: che verrà rigettata come tale, non in quanto espressione di un <altro da me>, a me incomprensibile, bensì proprio a partire da una assunzione di linguaggio comune.
E dunque? Come potremmo, e potremo mai, estirpare quello che appare come una tentazione suicidaria – il bisogno di uccidere me nell’altro.
Siamo troppi? E ci stiamo gettando dalla scogliera, come i favoleggiati lemming della Norvegia?
Sento di dovermi scusare – e andrà bene che questo mio fuorionda non venga letto fino in fondo.
Ne avevo bisogno. Di non tirare le fila del discorso, intendo: in coerenza con la pazzia del tempo che viviamo – da tempo, per la verità; da molto, troppo tempo. Da sempre?
Europa: quasi ottant’anni di pace sono un piccolo qualcosa; tre generazioni che non hanno conosciuto la guerra. Ho sentito un generale dire che i nostri ragazzi, europei, non sono in grado di essere buoni soldati proprio per il fatto di non esser cresciuti con la guerra nel proprio orizzonte. Lo diceva con positività. Ne pareva preoccupato ma contento.
Di mio, fatico a leggere: c’è un qualche senso di colpa. La vita continua. Continuerò a leggere.