Alberi, e foreste

Suzanne Simard, “L’albero madre. Alla scoperta del respiro e dell’intelligenza della foresta”, Mondadori 2022 – Traduzione di Silvia Albesano

“Per generazioni la mia famiglia si è guadagnata da vivere abbattendo foreste. Da questo modesto mestiere è dipesa la nostra sopravvivenza.

È il mio retaggio.

Io stessa ho tagliato un bel po’ di alberi”

Suzanne Simard è una scienziata canadese, e ci narra una ricerca dedicata alla scienza degli alberi, intrecciata alla sua storia di vita personale.

Studentessa ventenne, impegnata in un lavoro stagionale per un’azienda addetta al taglio e trasporto del legname, sulle Lillooet Mountains, nella Columbia Britannica, la incuriosirono dei particolari funghi che si legavano alle radici delle plantule e che, dalle sue osservazioni, avrebbero potuto aver a che fare con la possibilità, per quei futuri alberi, di vivere e crescere.

Si trattava di una curiosità che aveva già segnato la sua vita di bambina, quando amava vagare nei boschi, rimestare nel terreno, incuriosirsi dei vermi, assaggiare l’humus ricco di sostanze nutritive, distinguerne i sapori. Per dirla con le sue parole:  

“Più vermi c’erano più l’humus era ricco e gustoso, e io ero sempre stata un’entusiasta consumatrice di sporcizia, fin da quando avevo imparato a gattonare.

Mamma doveva sverminarmi di continuo.”

Ora, la interrogava la funzione di particolari funghi gialli la cui presenza apparentemente aiutava le plantule a vivere. Se altri funghi avevano a che fare con il processo di decomposizione degli alberi morti, e con la creazione dell’humus che nutriva gli alberi, questi parevano aver a che fare con una funzione di trasmittente di sostanze necessarie agli alberi per vivere e crescere. 

Gli sconosciuti funghi gialli operavano, intrecciandosi con le radici degli alberi, per la costruzione di reti sotterranee boschive attraverso le quali gli alberi parevano dialogare tra loro; e attraverso le quali, in particolare gli alberi “anziani”, sembravano operare in favore della crescita delle plantule e degli alberi più giovani, cedendo loro nutrienti, acqua e minerali. 

Suzanne Simard (foto dal libro)

Da qui, dalla curiosità per quei funghi gialli, era partita la ricerca di una vita; dall’ipotesi che potessero aver a che fare con la salute della foresta come organismo integrato, e con un modo degli alberi – in particolare degli Abeti di Douglas e delle Betulle – di comunicare tra loro e collaborare al benessere comune.

Disconfermando l’ipotesi darwiniana per cui la vita in natura è segnata dalla competizione – vincono i più forti – gli studi di Suzanne Simard portavano a verificare come la vita della foresta fosse sostenuta dalla cooperazione, dove vince la collaborazione, la capacità di fare rete.

“Soffocando la competizione, questi alberi resistevano a sconvolgimenti climatici, incendi devastanti, o ai fastidi causati dagli insetti o dal vento, eclissando di gran lunga colonialismo, guerre mondiali, e decine di primi ministri che la mia famiglia aveva visto avvicendarsi nel corso del tempo. Erano antenati dei miei antenati.

Suzanne Simard giunse così ad individuare l’esistenza e la funzione, degli “Alberi Madre” – anziani alberi che alimentano non solo i giovani alberi in difficoltà in generale ma, primariamente, la propria discendenza, gli alberi-figli; individuò l’esistenza di alberi con una funzione di hub di una rete che consente alla foresta di comunicare, scambiare informazioni (sulla qualità del terreno, sul clima e sui suoi cambiamenti, sull’esistenza di un pericolo o di una risorsa). 

Giunse a riconoscere una analogia tra la struttura di questa rete sotterranea che presiede alla salute e alla capacità di adattamento della foresta e la struttura del cervello umano. 

“Gli alberi più anziani sono in grado di distinguere quali plantule sono imparentate con loro. Gli alberi anziani nutrono i giovani e procurano loro cibo e acqua, come facciamo noi con i nostri bambini.” (…)

“La rete fungina sembra legare gli alberi per garantire la loro salute. Ma non è tutto. Gli alberi anziani fanno da madre ai loro piccoli.”

“Quando gli  Alberi Madre – gli imponenti hub al centro della comunicazione, della protezione e della natura senziente della foresta – muoiono, trasmettono la loro saggezza ai familiari, generazione dopo generazione, condividendo la conoscenza di ciò che è d’aiuto e ciò che risulta dannoso, ciò che è amico o nemico, e di come adattarsi a sopravvivere in un paesaggio in continua evoluzione.”

Dal libro: Foresta vergine con vecchi Alberi Madre di cedro rosso occidentale (…)

Questo libro mi ha legato a sé per un’intensa settimana di lettura lenta, per alcuni versi difficile, e impossibile da lasciare. Pagine intriganti che restano nel pensiero, che le dipana, a libro chiuso, nelle ore del giorno; pagine che accompagnano il pensiero nelle ore della notte, quando si spegne la luce, in via di cedere al sonno, tra una sessione di lettura e l’altra.

Da subito, il desiderio e la difficoltà di darne una restituzione mi ha creato uno stato d’ansia che, nel contempo, le pagine disperdevano nel piacere della lettura così come il sole disperde un fluttuante banco di nebbia dalle forme inquietanti che ci venga incontro nel bosco fitto, in montagna. 

Tutto era iniziato, per l’appunto, da un “fantasma” che, nella foresta, aveva per un momento spaventato la ventenne Suzanne che lo vide fluttuare verso di lei, per rivelarsi subito qual era, una nuvola, un lieve banco di nebbia che  “avanzava avvolgendo con i suoi tentacoli i fusti degli alberi.”

 “Nessuna apparizione, solo i solidi tronchi di cui dovevo occuparmi. Gli alberi erano solo alberi. Eppure le foreste canadesi mi erano sempre sembrate stregate, a me e soprattutto ai miei antenati, coloro che avevano difeso e conquistato la terra, che erano venuti a tagliare, bruciare e piantare gli alberi.

Pare che la foresta non dimentichi.”

Non sono in grado di restituire questo libro come merita. Si tratta di un libro che assomma in sé, tra i diversi livelli, il resoconto, scientificamente documentato, e dunque difficile da decifrare in modo analitico, causa linguaggio e nomenclatura inevitabilmente specifici: chiarissimo nel suo significato totale, che farà tutt’uno con una storia di vita, di relazione, di affetti; con  la restituzione di un mondo – le foreste canadesi delle Lillooet Mountains, il cui nome è quello di una popolazione nativa, e di una lingua (perduta? non lo so). 

Il tutto è inoltre reso prezioso da una scrittura che trattiene chi legge dentro una storia che lega l’impegno dell’autrice nella ricerca con una parte della sua biografia, con il suo vivere nella relazione: con la foresta, con la famiglia, con i figli, con i collaboratori. 

È una lettura che, con estrema semplicità, con fluidità, cattura, incatenandoci, ed emozionandoci, attraverso la condivisione di una vita mentre, senza soluzione di continuità alcuna, ci accompagna nella scoperta, scientificamente documentata, di una nuova visione del mondo, e delle nostre relazioni con le specie, in questo caso la foresta ma non solo, che lo abitano.

Posso solo dire, brevemente, che qualcosa è accaduto a me, dentro di me, e a conclusione di questa lettura. È stata una specie di epifania; e dovrei parlare, non essendone capace, di un entusiasmo che da tempo non provavo nel venir colta da una reale “folgorazione” per l’incontro con un fatto che non stava, non veramente, nella mia consapevolezza.

Ho scoperto l’assenza, nel mio vocabolario, di “nomi”, se non generici, per parlare del mondo vegetale. Ho <sentito> che cosa questo fatto, questa mancanza (credo di poter dire non solo mia e dunque difficile da rimediare) significava. 

Foto da libro: Albero madre di cedro rosso occidentale di circa mille anni (…)

Ho sempre desiderato (ma un po’ così, senza impegno) conoscere i nomi degli alberi; ho desiderato imparare a distinguere davvero un abete da un larice da un pino.

Mai mi ero accorta di non possedere, non per davvero, alcun linguaggio per relazionarmi al mondo vegetale; mai ero stata raggiunta dalla consapevolezza del fatto che è impossibile aver cura di ciò che non siamo in grado di nominare.

Non è una lacuna da poco; ed è una lacuna che fa parte integrante della nostra cultura; al punto che, fino a non molto tempo fa – ancora oggi? – ponevamo chi coltiva la terra, chi la conosce, al livello basso della gerarchia sociale – abbiamo tutti presente la frase, “buone braccia rubate all’agricoltura” usata per squalificare uno studente che falliva un esame.

Di questo si tratta: senza consapevolezza alcuna, abbiamo ritenuto inutile la capacità di nominare il mondo vegetale, i suoi habitat, le sue popolazioni. Abbiamo ritenuto che tale mondo non richiedesse conoscenza alcuna – e dunque nessun rispetto; da cui nessuna interlocuzione.

Tutto ciò ha molto a che fare che la distruzione che abbiamo operato, che continuiamo ad operare, del nostro mondo.

C’è di più. C’è quella rete, di cui Suzanne Simard ci dice, documentandone la presenza e la funzione; c’è quel vivere di comunicazione del mondo vegetale di cui nulla sapevamo, e che è oggi scientificamente accertato; che consente, alle foreste come a tutta la vegetazione, di ogni tipo, di crescere, vivere e riprodursi; di riconoscersi nei propri discendenti diretti come nella e per la comunità di appartenenza; di far propria la funzione della morte come assicurazione per la vita.

“Vi accompagnerò nel viaggio che mi ha svelato l’aspetto più sconvolgente di questo schema, ovvero le sue analogie con il cervello umano”. 

Noi umani abbiamo raggiunto la consapevolezza di come la “natura” della nostra specie sia “culturale”. Non abbiamo ipotizzato – abbiamo negato – che questo valga anche per le altre specie. 

Ne abbiamo derivato il nostro essere una specie a sé stante (per sua natura o per scelta di un Dio, fa lo stesso) che, in qualche modo, avrebbe a propria disposizione il mondo e i viventi che lo abitano.

Ora, se il mondo vegetale ci si presenta  – e questo Susanne Simard ci ha mostrato – come fondato, per la propria sopravvivenza, sulla relazione, sulla cura reciproca, su di una trasmissione di conoscenze (che, per forza maggiore, occorrerà definire culturalmente data), sulla capacità di sviluppare e trasmettere risorse e strumenti nuovi per affrontare il cambiamento, siamo di fronte a una rivoluzione culturale quale mai avevamo dovuto affrontare –  a qualcosa che dovrà cambiare tutto il nostro modo autoreferenziale, da cosiddette società avanzate, di abitare il pianeta.

“L’evidenza scientifica non si può ignorare: la foresta è cablata in modo da garantire saggezza, sensibilità e cura.

Questo libro non parla di come possiamo salvare gli alberi.

Parla invece di come gli alberi potrebbero salvare noi.”

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NOTE:

Suzanne Simard oggi, dopo anni in cui è stata ricercatrice per il Ministero delle foreste della Columbia Britannica, insegna ecologia forestale presso il Dipartimento di Scienze forestali e della Conservazione presso l’Università della Columbia Britannica. In precedenza ha svolto per lunghi anni lavoro di ricerca per il Ministero delle Foreste.

Per chi fosse interessato, dato che non sono in grado di restituire, nella sua precisione scientifica, gli studi e le scoperte di Suzanne Simard, inserisco in nota alcuni estratti sul tema da Wikipedia (di più non sono in grado di fare, se non avvertire come il libro risulti leggibile, da chiunque: basta ignorare nel dettaglio, non potendo far altro, le spiegazioni dell’autrice che, peraltro, utilizza una lingua molto più colloquiale di quanto faccia Wikipedia, non potendo tuttavia evitare di chiamare le specie e gli individui vegetali di cui parla con il loro nome; per lo più, credo, a noi sconosciuto).

Ricerche sulla comunicazione tra alberi

Simard studia come funghi e radici facilitino la comunicazione e l’interazione tra alberi e piante di un ecosistema. All’interno della comunicazione tra alberi e piante avviene lo scambio di carbonio, acqua, nutrienti e segnali di difesa tra alberi.

Ha usato rari isotopi del carbonio come traccianti in esperimenti sia sul campo che in serra per misurare il flusso e la condivisione del carbonio tra i singoli alberi e specie e ha scoperto, ad esempio, che la betulla e l’abete di Douglas lo condividono. Le betulle ricevono carbonio extra dagli abeti di Douglas quando le betulle perdono le foglie e le betulle forniscono carbonio agli abeti di Douglas che si trovano all’ombra. 

Alberi madre

Simard ha identificato l’albero hub, o “albero madre”. Gli alberi madre sono gli alberi più grandi nelle foreste che fungono da hub centrali per vaste reti di micorrize sotterranee. Un albero madre sostiene le plantule infettandole con funghi e fornendo loro i nutrienti di cui hanno bisogno per crescere.

Ha scoperto che gli abeti di Douglas forniscono carbonio ai giovani abeti. Ha scoperto che c’era più carbonio inviato agli abeti piccoli che provenivano da quello specifico albero madre, rispetto agli abeti piccoli casuali non correlati a quello specifico abete. Ha altresì scoperto che gli alberi madre cambiano la struttura delle proprie radici per fare spazio agli alberelli.

Cooperazione interspecie

Simard ha scoperto che “gli abeti stavano usando la rete fungina per scambiare sostanze nutritive con alberi di betulla dalla corteccia di carta nel corso della stagione”. Ad esempio, le specie arboree possono prestarsi reciprocamente gli zuccheri quando se ne verificano carenze nell’ambito dei cambiamenti stagionali. Questo è uno scambio particolarmente vantaggioso tra latifoglie e conifere poiché i loro deficit energetici si verificano in periodi diversi. Il vantaggio “di questa economia sommersa cooperativa sembra essere una migliore salute generale, una fotosintesi più completa e una maggiore resilienza di fronte alle fonti di disturbo”.