Libri per un nuovo anno

Publio Ovidio Nasone, “Le metamorfosi”, UTET 2013

David Foster Wallace, “Il re pallido”, Einaudi 2011

Viola Ardone, “Oliva Denaro”, Einaudi 2021

Pip Williams, “Il quaderno delle parole perdute”, Garzanti 2021

Porgo un augurio di Buon Anno fuori tempo massimo e, per la verità, con scarsa fiducia nel ritrovarmi a vivere bene questo nuovo tempo che, va detto, non si presenta al meglio.

Da parte mia ho tuttavia levato il calice per il doveroso brindisi allo scoccare della mezzanotte; ho compiuto il dovuto rituale (bacio bacio bacio) ben sapendo di non aver preso in alcuna considerazione l’attesa di un tempo nuovo, come quando, ragazzini, si iniziava un ancora intonso quaderno dei compiti (che avrebbe fatto la misera fine degli altri): nel frattempo era bello sentirsi, per un breve momento, nuovi e fiduciosi nel domani.

Non è, dopotutto, questo che, ancora, ritualmente, facciamo tutti a S. Silvestro? 

Questi ultimi mesi sono stati, tuttavia, per me, un tempo buono. Anche per merito vostro: nella sosta dalla scrittura che mi sono regalata, e un po’ imposta, ho potuto leggervi con piacere mentre voi, da parte vostra, avete continuato a frequentare la mia balzana libreria; si sono addirittura aggiunti nuovi amici!  Di che farsi catturare dalla pigrizia di continuare così, a porte aperte, da nullafacente o quasi, preferendo (come sempre) la lettura alla scrittura: che tuttavia mi manca. 

Riprendo, dunque, a fare i compiti, e inizio un nuovo quaderno ripromettendomi di trattarlo bene, in un modo che sia consono, pur con qualche speranza, al tempo che ci attende: la lettura, e con lei la scrittura, non abitano la famigerata turris eburnea dove il mondo e le sue pene non avrebbero accesso; cosa peraltro indesiderabile. 

Vorrei partire da una rivisitazione dei libri che mi hanno tenuto compagnia in questo tempo, per condividerli; per, quantomeno, collocarli negli scaffali; e, quale più quale meno, chiacchierarci su. 

Ci sono stati, tra un libro e l’altro, spezzoni di riletture, indotte da pensieri dell’attimo, richiamati da non si sa dove. E mi sono trovata a cincischiare qualche pagina qua e là, tra memorie ed emozioni del genere “amarcord”, che conducono a riesumare memorie. E indagare persistenze; e mutamenti. 

Da quanto tempo non frugavo dentro “Le metamorfosi” del buon vecchio Publio Ovidio Nasone? Non da moltissimo, a ben vedere. Me lo ero ritrovato tra le mani, credo, quando ho letto Dio è nato in esilio. Diario di Ovidio a Tomi“, di Vintilă Horia (qui e qui)

Non un libro da leggere, integralmente, in effetti, o quantomeno non per me (è troppe cose, troppi mondi, pur se il tema è Uno), solo quel tanto che, proprio ora, mi è occorso per riesumare, e sognare, un’età dell’oro,  che “fu la prima a nascere”, dopo che “un dio, chiunque fosse…compattò la terra in forma di grande globo, perché essa fosse uniforme da ogni parte“.

Ermafrodito. Statua periodo ellenistico: Di Sconosciuto – Lady Lever Art Gallery – Wikipedia

Fu l’età in cui venne creato l’uomo, che il dio plasmò a somiglianza degli dei che reggono l’universo:

“… e mentre tutti gli altri esseri animati guardano proni la terra, (quel dio, chiunque fosse) all’uomo dette invece una figura eretta e volle che guardasse il cielo e drizzasse i suoi occhi alle stelle”.

Durante l’età dell’oro si praticava spontaneamente “la virtù e la giustizia, senza giudici, senza leggi.”

“Il timore della pena era assente, né si leggevano sulle tavole fissate a muro proscrizioni o sanzioni né la gente implorante aveva paura del volto del proprio giudice, ma tutti erano tranquilli mancando chi punisse.”

Bello, ritrovare le antiche radici del sogno anarchico! Pure se poi dovremo commisurare al nostro mondo un’età del ferro, giunta alla specie umana per piccoli passi non veduti, attraverso un’età d’argento e un’età del bronzo, quando Giove – chissà perché – dopo aver creato le stagioni, “l’inverno e l’estate e l’autunno incostante e la primavera di breve durata” rese l’umanità preda del bisogno.

“…per la prima volta gli uomini abitarono le case (…) per la prima volta la semente di Cerere fu interrata nei lunghi solchi, e i giovenchi si lamentarono sotto la pressione del giogo.”

Fu volontà di un dio, se si giunse a questo, a ciò che vediamo oggi? Non così, pur non dicendolo, pare (forse) al nostro Publio Ovidio Nasone che ci ricorderà come, senza dubbio alcuno per colpa degli uomini:

secondo il fato verrà un tempo nel quale il mare e la terra e la reggia celeste, assalita anch’essa, saranno preda delle fiamme e la mole del mondo ben costruito andrà in rovina.

E mentre lascio e riprendo Ovidio, mentre leggo e interrompo, per riprendere e interrompere “Il re pallido” di D.F.Wallace (ne avevo accennato qui), sento una qualche incompresa continuità, una collusione, un richiamarsi, un darsi sulla voce – tra questi due libri; tra la noia e il mutamento. 

Incerta (timorosa: come non esserlo?) del mio/nostro tempo, centellino, tra un libro e l’altro, le due letture, quasi si trattasse di dover osare, di dover cogliere un frutto proibito da cui trarre: risposte? a domande che non so esprimere? Per le quali non ho parole?

La cosa certa è che si tratta di pagine che hanno la forza di rallentare i giorni; e di consentirmi un osare, con aspetti di impudenza, che solo la giovinezza conosce: non è poco. Provare per credere.

Nel frattempo, leggo. Una buona serie di libri, di cui dovrò comprendere relazioni al momento incomprese: ho sempre pensato che, nel trascorrere dei libri che ci scelgono, si snodi un qualche discorso che solo talvolta, o molto tardi, si mostrerà; talvolta mai: ma va bene ugualmente.

L’ordine della serie sarà casuale. Si mostrerà man mano. Iniziamo.

Viola Ardone, “Oliva Denaro”, Einaudi 2021: un’autrice per la quale attendevo lo strano ‘momento giusto’ per leggerla (e chi legge sa di cosa si tratta). Un’autrice di cui mi riprometto di leggere le sue altre opere.

“Incipit: “La femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia, così dice mia madre”

La voce parlante appartiene ad Oliva, che narra la propria vita e il proprio pensiero di bambina: su di sé, sull’essere donna, sulle scelte possibili e impossibili che ha a propria disposizione per la propria vita – poche, che tuttavia prende in considerazione a suon di:

“Io sono favorevole a…”

“Io non sono favorevole a…” 

sempre in riferimento a cose (cui è “favorevole”) che per lei non saranno raggiungibili e cose (cui non è “favorevole”), cui tuttavia è destinata, quale più quale meno. Tipo: il bagno di mare (favorevole), la frittata (favorevole), il “marchese”, (non favorevole), le cui regole, una volta che sia giunto, per una ragazza significano:

“cammina a occhi bassi, riga dritto e statti in casa.” 

Oliva ha un modo chiaro, concreto, di vedere il mondo, rafforzato dalla gemellarità con il fratello maschio; dalla evidenza di regole diverse, per la vita dell’uno e dell’altra, che un’infanzia condivisa, e un padre che la ama, un padre dal pensiero libero, rendono di un’evidenza lapalissiana.

1960: è il tempo a partire dal quale Oliva inizia a raccontare e, per chi ha la mia età, poco o tanto, la voce della bambina porta al riemergere di un vissuto, di un <dover essere> che – dimenticato? rimosso? – riemerge, e porta con sé un misto di ribellione, sofferenza, al tempo priva di parole, predestinazione, destino. 

Sarà il 5 agosto 1981 il giorno in cui la storia di quel tempo si chiude, con la cancellazione dell’art. 544 del Codice Penale che, fino ad allora, aveva sancito:

Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.

Nel mezzo, una vita di bambina, ragazza, donna; nel mezzo, le sconfitte, le vittorie, i prezzi pagati, tanti, sempre, e domande, e ascolto, dentro di sé, di un diverso poter essere; e anfratti culturali che rendono tutto difficile, mai risolto. 

Il libro ripercorre, attraverso una storia di invenzione, diversa e uguale, la storia di vita di Franca Viola, la giovane siciliana che il 6 dicembre 1965 fu aggredita, sequestrata e stuprata per venir costretta ad un matrimonio non voluto.

Franca Viola rifiutò, con il sostegno del padre, il matrimonio “riparatore” innescando un processo che, sul piano giuridico, portò alla condanna dei responsabili e all’inizio di un percorso, lungo sedici anni, che si sarebbe concluso con l’abrogazione di quell’art. 530.

Sul piano culturale non fu, non del tutto, così; solo iniziò a crescere una coscienza civile che il cambiamento della norma innescava ma che avrebbe richiesto altro tempo per diventare socialmente condiviso: dovendo dire come, ancor oggi, tale mutamento non possa dirsi pienamente concluso.

Ci vollero inoltre altri quindici anni perché la legislazione italiana, nel 1996, riconoscesse la violenza sessuale, fino ad allora reato definito <contro la morale>, quale delitto <contro la persona>: e ancora assistiamo ad una violenza contro le donne che ha, dalla sua, il permanere di una cultura patriarcale, diffusa all’interno di tutte le classi sociali, che ne è il sostegno e impregna di sé la nostra società (donne incluse). Una cultura che non ha introiettato la norma giuridica.

Mi fermo, in attesa di raccontare di altri libri che hanno segnato questo mio periodo; che ho lasciato in attesa: primo tra tutti un libro (che ho letto e riletto, per il quale ringrazio l’amica che me lo ha segnalato, chiedendomi come avevo potuto perdermelo): 

Pip Williams, “Il quaderno delle parole perdute”, Garzanti 2021. 

Al libro andrà accompagnato un altro titolo, che mi propongo di leggere – Simon Winchester, “Il professore e il pazzo”, Adelphi 2018 –  e il film, stesso titolo, del 2019, che ho potuto vedere. Tema, per ambedue i libri (e per il film), la redazione dell'”Oxford English Dictionary” (1857 – 1895).

Storie, tuttavia, diverse; in riferimento alle quali mi obbligo a fermarmi: “Il quaderno delle parole perdute” richiede un tempo per sé; lasciato il quale  potranno seguire altri libri.

(Segue)