Da che parte stai?

Shlomo Sand, “L’invenzione del popolo ebraico”, Rizzoli, prima edizione 2008, traduzione di Elisa Carandina

Shlomo Sand, “Come ho smesso di essere ebreo”, Rizzoli 2013, traduzione di Francesco Peri

Questa non sarà propriamente una recensione: sarà solamente un invito a leggere due libri, il primo dei quali, per me, è ancora una rilettura in corso: letto qualche anno fa, avevo rinviato il proporlo. Avrei dovuto, prima di ciò, quantomeno rileggerlo se non studiarlo.

L’autore, Shlomo Sand, figlio di genitori ebrei polacchi sopravvissuti all’Olocausto, è professore di Storia all’Università di Tel Aviv e saggista di fama internazionale. 

Ora, dopo che in Palestina tutto è nuovamente accaduto e continua ad accadere potrò solo suggerirne la lettura.

È un’ opera che conduce, attraverso un percorso millenario, a conoscere la storia dei vari gruppi ebraici sparsi nel mondo, i percorsi separati che hanno avuto, nelle discriminazioni che, anche nella terra di Israele, gli ebrei di origine araba subiscono mentre, essendo evidente come, se il termine antisemita significa, vulgata comune, odio “razziale” contro gli ebrei, di suo, “semitico” non significa alcunché, non essendo pensabile un e un solo popolo che attraverso i millenni, attraverso le diaspore, discenda “geneticamente” da Sem, figlio di Noè, di madre ebrea in madre ebrea.

Shlomo Sand (Wikipedia)

Di questo libro, la copertina riporta un commento di Eric Hobsbawm: “Forse non bastano libri che combinano passione ed erudizione per cambiare la situazione politica. Ma se potessero, questo lo farebbe.”

“(…) se Israele continua a considerarsi lo stato del «popolo ebraico e non un corpo che rappresenta tutti i cittadini inclusi entro i suoi confini stabiliti (esclusi dunque i territori occupati) non potrà mai essere definito uno Stato democratico. (…) Ancora agli esordi del ventunesimo secolo l’obiettivo dello Stato d’Israele (era ed è) porsi al servizio degli ebrei, non degli israeliani, e fornire le migliori condizioni ai presunti discendenti di questo <ethnos> invece che a tutti i cittadini che vivono in questo Stato e ne parlano la lingua. In effetti, chiunque sia nato da madre ebrea può ottenere il meglio da entrambi i mondi: è libero di vivere a Londra o a New York, sicuro che lo Stato d’Israele gli appartenga anche se non desidera vivere sotto la sua sovranità. Ma chiunque non discenda da lombi ebraici e viva a Giaffa o a Nazareth, sa che non possiederà mai lo Stato in cui è nato.”

A distanza di qualche anno Rizzoli ha proposto un secondo libro di questo autore, Come ho smesso di essere ebreo”, in cui non parla solo lo storico, parla la persona Shlomo Sand, parla un ebreo, laico, che dice di sé.

Anche in questo caso, il libro è stato scritto prima che tutto accadesse nuovamente; prima dell’orrore dell’aggressione di Hamas, prima degli orrori della risposta israeliana in corso.

Anticipando le conclusioni cui arriverà attraverso quest’opera, a carattere storico, Sand scrive:

Sono figlio di ebrei sopravvissuti all’inferno europeo degli anni quaranta senza mai smettere di sognare una vita migliore: l’arcangelo della storia che ci fissa con occhi sconvolti non mi permette di rinunciare,  di perdere la speranza.

Il libro, dice la presentazione è “un attacco al cuore di Israele”, carico di amore, carico di una “identità” che l’autore chiede di poter definire “israeliana” là dove vede come, causa i cattivi frutti dell’antisemitismo, “l’identità ebraica (abbia) subito una deformazione”, e stia costruendo una “democrazia che discrimina i suoi stessi cittadini in base alla religione, visto che i non ebrei non godono degli stessi diritti degli ebrei, i matrimoni misti sono mal tollerati e la società è “una delle più razziste del mondo occidentale”.

Libro provocatorio, dunque, ma gravido di tutta la preoccupazione per la sopravvivenza di una nazione, “Israele”, che con tutta la sua forza, potrebbe  fallire il proprio obiettivo, in assenza di una strada che la porti ad essere una democrazia tra le altre, a riconoscere come propri cittadini tutti coloro che la abitano.

Farò dunque riferimento a questi due libri, ben sapendo, tuttavia, che il tema, oggi, in questi mesi-giorni-ore, non mi consentirà la giusta distanza per parlarne e tuttavia potendo gli stessi aiutare la messa a fuoco, sempre provvisoria, di qualche pensiero. 

Non c’è chi, in questi giorni, non sia angosciato da ciò che sta continuando ad accadere in terra di Palestina e, sull’altro fronte, in Ucraina, cercando di dimenticare/dimenticando gli altri conflitti in atto. 

Sconvolge la sola idea che la nostra vita – di europei, italiani – stia scorrendo senza interferenze dal mondo al di fuori della nostra casa, della nostra cittadina, al di fuori della nostra comfort zone (se di comfort zone potessimo parlare).

Ci si interpella, si chiedono lumi, mentre quanto sta accadendo in terra di Palestina <È> una prova di genocidio in corso: inutile giocare con le parole: 

“Genocidio: definizione O.N.U. (e dunque su cui concordano 193 Stati su 195 Stati sovrani del mondo che ne sono membri):

qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico o religioso:

uccidere membri del gruppo;

causare gravi danni all’integrità fisica e psicologica dei membri del gruppo;

sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita che ne provochino la distruzione fisica, totale o parziale;

porre misure destinate a prevenire le nascite all’interno del gruppo;

trasferimento forzato dei figli del gruppo a un altro gruppo.

Il genocidio si configura come crimine internazionale e si distingue dai crimini di guerra perché può avvenire anche in tempo di pace.” (qui)

Non lascia molti dubbi, vero?

In “Come ho smesso di essere ebreo”, l’autore esprime il suo desiderio – la sua speranza, la sua attesa – di poter essere un “cittadino israeliano”, cittadino di una democrazia, patria certa per tutti gli ebrei ma patria, casa, contestualmente, di tutti coloro che la abitano, senza discriminazioni religiose e, diciamolo pure, razziali (perché non è la stessa cosa, in Israele, essere un ebreo arabo o un ebreo ashkenazita, di famiglia originaria dell’est europeo, al tempo di lingua yiddish, o un ebreo sefardita, di famiglia originaria dalla Spagna, al tempo fuggita nei territori dell’Impero Ottomano, ecc.)

Veniamo interpellati in merito al nostro concordare o meno sulla risposta ad una domanda, solitamente priva di dubbi: “Da che parte stai?”

Vengo interpellata sul mio personale schierarmi a favore o contro un’affermazione, una presa di posizione, un massacro rispetto ad un altro, diversamente “giustificato” – come se un massacro potesse mai esserlo e pur tuttavia, considerato il numero, la frequenza, la disumanità dei massacri che costellano e hanno costellato la storia della specie umana, ne dovremmo pur ricercare un’origine, una causa: che mai potrà costituirne una giustificazione. 

In assenza di risposta mi ritrovo – e non accade a me sola, ovviamente – a rischio di venir assegnata ad uno o all’altro campo: imperativamente. 

Non mi viene rivolta una domanda, figlia del dubbio e della curiosità, cui rispondere argomentando: si tratta, sempre, di un indovinello, utile a sapere se io appartenga alla “giusta” curva, nel qual caso ne potremo parlare, esprimendo tutto il nostro “giusto” sdegno per gli appartenenti all’altra curva, nemica per sua natura; e non se ne parli più.

Che fare, se ci si ritrova ad appartenere e a coltivare dubbi su ambedue? Se, peggio ancora, non si è disponibili a sposare un’appartenenza per mancanza di sufficienti conoscenze nel merito? O più semplicemente perché le appartenenze, sempre multiple, non consentono di collocare le persone in un insieme dato e totalizzante il loro tutto?

Che fare se non sarà possibile dare una risposta per l’assenza di una domanda correttamente posta, e mai univoca? Possiamo concordare sul fatto che “per chi parteggi” non è una domanda accoglibile?

Possiamo escludere di possedere risposte chiuse? Vale a dire riconoscere che, per lo più, la risposta, parziale e provvisoria, multipla e aperta a ulteriori possibilità, neppure sarà necessaria; mentre la sua sospensione potrà dare, sola, una possibilità quantomeno di limitare errori devastanti.

Nel gennaio 2024 è apparso l’ultimo libro di Shlomo Sand, Deux peuples pour un État ? Relire l’histoire du sionisme” (“Due popoli per uno Stato? Rileggere la storia del Sionismo”), Editore Seuil 2024. Non l’ho ancora letto.

In un’intervista all’autore su “Jeune Afrique”, dal titolo “Il fatto che Israele bombardi Gaza significa che i terroristi hanno vinto”  Shlomo Sand, a proposito di questo libro, si esprime così (qui

“(…) Lei parteggia per la fine dell’<occupazione israeliana>: oggi, le coscienze e le emozioni sono carne viva. Lei ha amici ebrei e israeliani, parenti, che si dicono scioccati per la sua posizione?

“Sì, ahimè. In quest’ultimo mese ho perduto molti amici. Il clima è teso, le sfumature non esistono più. (…). Ciò che mi interessa, come storico, è illuminare la situazione presente alla luce del passato, ma questo non significa giustificare, capire non è perdonare. Nulla giustifica la violenza di Hamas. È tuttavia possibile capire da dove origina.” (traduzione mia)

Non ho una opinione, da proporre, chiaro. So solo che, oltre all’angoscia per ciò che gli israeliani stanno facendo non ad Hamas bensì alla gente di Palestina, confesso una grande paura anche per il futuro dello Stato di Israele.

_______________________________________________

Shlomo Sand, Deux peuples pour un État ?: Relire l’histoire du sionisme” Editore Seuil 2024:

Quarta di copertina: (qui)

La création d’un État binational où Israéliens et Palestiniens seraient citoyens du même État a jadis été l’aspiration de nombreux intellectuels juifs critiques, de gauche comme de droite. Les prises de position en faveur du binationalisme, d’Ahad Haam dès la fin du xıxe siècle à Léon Magnes en passant par Hannah Arendt et beaucoup d’autres, pour qui le désir de créer un État juif exclusif sur une terre peuplée en majorité par des Arabes entraînerait un conflit violent et insoluble, se sont révélées tout à fait exactes. Avec l’arrivée aux affaires de l’extrême droite en Israël, les massacres perpétrés par le Hamas et les bombardements de la bande de Gaza, la question d’un État binational est devenue une urgence pour toute la région. Lui tourner le dos n’y changera rien.

Le binationalisme ne relève pas seulement du vœu pieux, mais aussi de la réalité présente : 7,5 millions d’Israéliens-juifs dominent, par une politique d’expulsion, de dépla­cement, de répression et d’enfermement, un peuple palestinien-arabe de 7,5 millions de personnes, dont une grande partie est privée de droits civiques et des libertés politiques élémentaires. Il est évident qu’une telle situa­tion ne pourra pas durer éternellement.