Correva l’anno 1967

È tanto tempo fa, dite? Troppo? Non proprio. Cinquantasette anni non separano generazioni che ancora condividono storie di vita, in un tempo in cui l’età media della popolazione italiana è posizionata intorno ai 45-46 anni: è ancora un tempo che ci riguarda. 

E qualcosa era già iniziato ad accadere. 

Era uscito in libreria “Lettera a una professoressa”.  Libreria Editrice Fiorentina. Autori: Otto ragazzi della scuola di Barbiana. Altri nostri compagni che sono a lavorare ci hanno aiutato la domenica. (segue:…)”.

Un tale don Lorenzo Milani (1923 – 1967) aveva curato questa pubblicazione e da tempo faceva parlare della sua scuola oltre che delle sue idee – tipo, a sostegno dell’obiezione di coscienza alla leva militare obbligatoria. Due anni prima era uscito, a sua firma “L’obbedienza non è più una virtù”, divenuto anche uno spettacolo teatrale.

Don Lorenzo era il parroco di S. Andrea di Barbiana: due decine di case sparse, nel Comune di Vicchio, nel Mugello, un piccolo Comune che diede i natali a Giotto e al Beato Angelico.

Era il 1954 quando don Lorenzo arrivò in quel luogo, quota 475 m.: in punizione. Era un prete un po’ ribelle e nella nuova Parrocchia aveva trovato il nulla: motivo per cui ce l’avevano mandato.

Non c’era neppure una strada per arrivarci: il furgone che portava lui e le sue poche cose – un piccolo trasloco – lo aveva lasciato a un chilometro di distanza, dove la strada finiva, e si poteva proseguire solo a piedi.

Case sparse, abitate de mezzadri, contadini di montagna, per lo più analfabeti, che lavoravano la terra di un padrone – in questo caso del Parroco – e che, di generazione in generazione, avendo solo di che sfamarsi, e un povero tetto sulla testa, mancavano financo delle parole per poter essere cittadini a pieno titolo. 

Era una piccola comunità composta di “servi della gleba”, “privati di un destino”: così li descriverà, raccontando l’esperienza della scuola di Barbiana, la giornalista Sandra Gesualdi, figlia di due allievi di quella scuola e vicepresidente della Fondazione che ne mantiene viva la memoria.

In quel territorio il trentunenne don Lorenzo Milani individuò subito il bisogno primario di quella gente cui, come loro Parroco, dare risposta: necessitavano delle Parole che, sole, avrebbero consentito loro di essere cittadini. 

La Costituzione arrancava a Barbiana” – sono ancora parole di Sandra Gesualdi: la scuola, otto anni di obbligo, lì si fermava alla terza elementare; per pochi fortunati alla quinta. Era il primo, assoluto bisogno per dare diritto di cittadinanza ai figli di quei contadini di montagna: avevano bisogno di parole. 

E fu scuola, a tempo pieno: un’aula dentro la canonica della Parrocchia di Barbiana dove un pugno di bambini e ragazzi, maschi e femmine, studiava e lavorava da mattina a sera, domeniche comprese, per imparare, per leggere i giornali, per impadronirsi delle parole, le sole vere armi che fanno essere cittadini, sovrani di se stessi.

Lorenzo Milani morirà in quello stesso anno 1967.  Aveva 44 anni. 

Don Lorenzo sosteneva un concetto semplice: non è giusto – diceva – far parti uguali tra disuguali; non è giusto dare a Gianni, contadinello figlio di contadini, la stessa scuola che si dà al “Pierino del dottore” che, a sei anni, inizierà la scuola elementare dalla seconda classe perché, con una famiglia come la sua, sapeva già leggere e scrivere.

Don Lorenzo diceva che la bocciatura, in una scuola uguale per disuguali, era la conservazione di una scuola classista che <sceglieva> di perdere quei ragazzi per strada.

Diceva che, per quei ragazzi deprivati, occorreva semplicemente un surplus di scuola; e un’attenzione particolare, con la volontà di lavorare per loro.

In queste pagine don Milani fa il conto di tutti i ragazzi che “Pierino del dottore” ha visto sparire dalla propria vita. Fa il conto dei danni che anche Pierino ha subito. Fornisce dati.

In seconda elementare Pierino era con tutti. In quinta è già in un gruppo più limitato. Su 100 persone che incontra per strada  40 gli sono già inferiori.

Dopo la scuola media gli <inferiori> salgono a 90 su 100.

Ogni volta ha visto la sua pagella migliore di quella dei compagni che ha perso. I professori che hanno scritto quelle pagelle gli hanno impresso nell’anima che gli altri 99 sono di cultura inferiore.

A questo punto sarebbe un miracolo che la sua anima non ne sortisse malata.” 

“(…) i professori gli hanno detto una bugia. La cultura di quei 99 non è inferiore, è diversa. La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo, è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere le parole.

Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose.

(…) La scuola selettiva è un peccato contro Dio e contro gli uomini. Ma Dio ha difeso i suoi poveri. Voi li volete muti. Ma Dio v’ha fatto ciechi.”

E oggi? Quando è giunta la Sociologia, l’Antropologia culturale (si fa per dire) a cambiare di segno quella parola: da <Cultura> a  <culture>? Per arrivare a quella strana parola equivoca, di separazione: Etnia

In quel 1967 tutto stava già accadendo, ma <La Cultura> non se ne era ancora accorta, non proprio.

Era un tempo in cui la Cultura imperava, per pochi e su tutti. Imperava la Classe, (/la Confraternita, le Confraternite), degli Intellettuali, accreditati a emettere sentenze sui prodotti culturali: le loro erano parole definitive o giù di lì, fatti salvi gli scontri, le liti e le partigianerie che ogni guida intellettuale era in grado di dispiegare, quali truppe nella battaglia.

Nessuno, proprio nessuno, poteva mettere in dubbio che, per appartenere a una di tali Confraternite, occorresse sapere di greco e di latino, con l’aggiunta di dover produrre molta scrittura di un certo tipo; e “avere (pure!) molte altre virtù” – ce l’aveva ben detto, quasi un secolo prima, ironizzando ma non troppo, Giosuè Carducci, in una celebre poesia – a noi Grandi Boomers, per non dire antichi, al tempo era richiesto di sapere a memoria <quelle> poesie”, tra cui “Davanti a San Guido”: voi millennials, se volete, andatevela a cercare!.

Nessuno, a quel tempo e anche in seguito, avrebbe mai sollevato dubbi sulla certificazione di qualità assegnata dall’intellettuale accreditato di turno a un manufatto d’arte, fosse un quadro, un concerto, un romanzo, un saggio sui massimi sistemi. 

Questo accadeva perché, per l’appunto, esistevano “gli intellettuali di professione”, che facevano scuola e, di conseguenza, rilasciavano i necessari titoli di appartenenza ai loro “Ordini”: è ben questo che si richiede ad una scuola, di qualsivoglia ordine e grado, non è così?

A quel tempo, il vocabolo <Cultura> significava un preciso Sapere, indiscusso e indiscutibile, il cui ambito di competenza erano, con il greco e il latino, la letteratura (e un po’ le arti figurative) di una storia millenaria, europea e del Vicino Oriente (con un po’ di America del Nord, come new entry post bellica, finalmente). 

Senza greco e latino non c’era nulla da certificare: pochissima considerazione per quelli che oggi chiamiamo “saperi STEM”, importanti, certo, ma del genere cose a parte. 

Persino la musica, a quel tempo, era, in qualche modo, cosa a parte e nella Scuola, nei Licei, non si insegnava, né allora né oggi (aveva qualcosa a che fare con la matematica?). 

C’era la lirica, che anche il popolino illetterato ma alfabetizzato apprezzava, con diffusa competenza: girava l’aneddoto sul terribile pubblico popolare che sempre affollava il loggione del Regio di Parma, e su quella tal volta in cui, al finale di Cavalleria Rusticana, all’urlo femminile “hanno ammazzato Compare Turiddu!“, dal loggione arrivò a piena voce la risposta “meno mäl i gh’ l’ävon da masär prìmma!” 

Serve traduzione? Non credo. Quel povero tenore temo non abbia avuto vita facile, in seguito.

C’era, avanzava, un popolo alfabetizzato e acculturato; che leggeva il giornale. In aggiunta, la giovane televisione faceva scuola, diffondeva “Cultura”, esercitando una sua originaria vocazione pedagogica e di controllo: dal ‘61 aveva iniziato le trasmissioni il secondo Canale.

Piccoli commercianti, bottegai, artigiani, e una nascente importante classe operaia leggevano e aspiravano a far studiare i figli: qualcosa stava cambiando ma ancora, forse, agli Intellettuali sfuggiva come tutto questo avrebbe dato luogo a un cambiamento in primo luogo della loro preminente posizione.

Alla stessa classe operaia emergente, peraltro, sfuggiva l’esistenza dei contadini, se non per la fuga dai campi che stava, progressivamente, cambiando l’Italia per farne una potenza industriale. Sfuggiva meno alla Chiesa, che vi vedeva il sostegno alla tradizione, a una religiosità che pareva non aspirare ad una modifica dello status quo: a parte a causa di qualche irregolare, tipo don Lorenzo Milani. Da tacitare.

Erano gli anni della fuga dal Sud al Nord d’Italia; da territori contadini (non ancora per molto) alla Lombardia industriale, a una Torino in via di divenire omologata FIAT.

Era stata istituita la Scuola Media Unica, era stato portato l’obbligo scolastico dai dieci ai quattordici anni. Erano stati istituiti i doposcuola – con riserva, solo se possibile, tant’è che, nel giro di poco tempo, non se ne fece più nulla.

Quando la nuova media fu discussa in Parlamento noi, i muti, si stette zitti perché non c’eravamo. L’Italia contadina assente là dove si parlava della scuola per lei.

Discussioni interminabili tra parti che sembravano opposte ed erano uguali.”

A Barbiana, don Milani faceva scuola a tempo pieno; e poi mandava i suoi  ragazzi a dar gli esami da privatisti. Tutto là: rivoluzionario. 

Nella scuola di Barbiana si leggevano i giornali. Oltre a costruire da sé banchi, sedie, altro ed, ebbene sì, libri.  

Don Milani con i suoi ragazzi a Barbiana, foto di Oliviero Toscani, fonte L’Espresso gennaio 1959

Lettera ad una professoressa” non è un capolavoro della letteratura italiana: è un libro di verità; un libro scritto bene e che si legge facile; un libro scritto da chi ha acquisito una lingua, con essa un pensiero, e lo trasmette con chiarezza.

“Perché è solo la lingua che fa uguali. Uguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli.”

Ho scritto troppo, e devo chiudere: magari potremmo riprendere un discorso che pone un problema oggi più vivo che mai, nei nostri giorni in cui i figli degli immigrati di oggi sono i contadini di ieri cui, in aggiunta, neppure viene riconosciuta la cittadinanza del Paese in cui sono nati e in cui hanno sempre vissuto, quelli che saranno gli italiani di domani, i nostri giovani concittadini per i quali si sente parlare di una scuola separata (echeggia un ricordo? Al tempo si chiamavano Classi speciali e Classi differenziali.)  

Oggi, nei giorni in cui la “Classe Intellettuale” non esiste più (e va bene così) sembra si faccia a gara per disimparare a parlare, tutti. Nei giorni in cui la Scuola sembra volersi/doversi asservire al compito di formare lavoratori, non più cittadini.

Non saprei dire se lo studio del latino e del greco sia da mantenere. Lo desidero, e molto, lo ammetto; mentre sento un grande disagio anche solo nel pensarlo. 

Vivo una sensazione, un malessere, una domanda che non oso esprimere: cosa sta accadendo? In un mondo cui, forse, non appartengo più; in un mondo trascorso dalla “Cultura” (e, ripeto, ben venga l’estinzione della sua vecchia forma), alle “culture”, alla potenziale ricchezza del crogiuolo culturale: da realizzare al ribasso? in un nuovo mondo dove, ancora una volta, emergeranno, soli e disperati senza saperlo, i Pierini del dottore che non avranno neppure più frequentato la scuola comune; che non avranno perduto compagni neppure mai veduti. 

Un discorso enorme.

Ho detto poco. Ho scritto troppo.

(seguirà: forse)