Ho terminato, per ora, il mio piccolo giro nella narrativa americana. Per la verità, avendo trovato in quest’area libri davvero molto interessanti, so che non sono propriamente le ‘mie’ letture: frequentarli mi fa accorgere del mio legame preferenziale con la letteratura europea e con la sua specificità. Ovvio vero? Ma non quanto si può pensare. Oggi frequentiamo tutti scrittori e storie di altre parti del mondo, qualcuna più qualcuna meno.
Ad esempio, c’è una vasta letteratura, di altissimo livello, dell’America latina, che sto trascurando: non è un assoluto eppure, pur riconoscendo la bellezza della scrittura e delle narrazioni, che so, di un Garcia Marquez, non so perché, è un autore la cui narrazione non sta nelle mie corde. Lo dico premettendo sempre la distinzione fondamentale tra ciò che è bello e ciò che piace, che non è banale come sembra; ciò che piace è, inevitabilmente, ciò che parla a noi, che possiamo trovare, anzi che sicuramente troviamo, anche nell’altro-da-noi, ma necessariamente sentendo il permanere di una distanza che, talvolta, non risulta colmabile. Ho iniziato “Cent’anni di solitudine” più di una volta e il libro è rimasto interrotto dopo poche decine di pagine, senza che io sappia dirne il motivo; è rimasto interrotto senza che io lo abbia deciso, anzi mentre lo stavo apprezzando, improvvisamente attratta da qualcos’altro.
Per quanto mi riguarda, è così ad esempio con i narratori giapponesi; penso ad esempio a “Il paese delle nevi” di Yasunari Kawabata, che ho sempre desiderato leggere senza farlo perché qualcosa mi trattiene, immagino la preoccupazione del possibile lasciarlo senza completarne la lettura perché sorda al suo linguaggio. Fantasie, magari, ma è così. Dovrò decidermi ad acquistarlo: questo mi indurrà a leggerlo con cura. Non tollero il possedere libri non letti, o almeno cui non sia stata data una onesta e ripetuta possibilità.
Non c’è niente come la narrativa che immerga davvero in una cultura, con i suoi totem, i riti e le credenze, le abitudini e i modi delle relazioni. Ci sono libri di storia, di cronaca, saggi su questo o quell’aspetto di un popolo, di un ambiente sociale, che dicono molto, ma dicono, in conseguenza del loro approccio, prevalentemente al cervello; si tratta di un dire da cui resta esterno il vissuto, quello che ti rende possibile un rapporto con aspetti di te che non conoscevi e addirittura che, fino a tale lettura, non ti appartenevano. Un grande arricchimento.
La narrativa è dunque altra cosa: attraverso un romanzo, si entra nel mondo dello scrittore, si prende contatto anche con ciò che l’autore, per certi aspetti, magari di dettaglio, neanche sa di star esprimendo; ne risulta una comprensione dall’interno, che ci parla di noi, in cui ci possiamo riconoscere, o ci parla di un altro da noi con cui, sia pure per opposizione, possiamo aprire un confronto, un dialogo. Non so proprio dirlo meglio.
In qualche modo, oggi, vivendo tutti dentro un mondo globalizzato (quantomeno questo è quello che ci dicono di continuo, finirà che ci crederemo, senza accorgerci dei guai che questa falsa credenza comporta) ci convinciamo di essere inter-traducibili. Poi arriva un buon romanzo e ci accorgiamo che non è vero.
E l’autore non sa le diverse letture che i lettori faranno delle sue pagine, e non solo quelli che non appartengono al suo mondo, non tanto globalizzato quanto si può credere. Ed è incredibile quante nuove vite, mai prima immaginabili, un libro possa avere.
E i narratori italiani? Ho preso in considerazione la differenza di genere tra gli autori che scelgo; non avevo preso in considerazione una differenza molto importante: quella linguistica. E mi accorgo che in questi ultimi sei mesi non ho preso abbastanza in considerazione autori italiani. Vale a dire la <mia> lingua, in presa diretta, non tradita da una traduzione. In particolare, a parte Cristiano Caracci, non ho preso in considerazione il romanzo italiano.
Ne rimango stupita, anche perché gli autori italiani non mancano nelle mie letture e tuttavia, devo verificare, ma forse non leggo moltissimo i contemporanei. E’ qualcosa su cui dovrò riflettere.
Ora tuttavia sto leggendo, e seguirà la recensione, “La forza del passato” di Sandro Veronesi. E’ un suo libro datato, che mi è stato consigliato e che ho deciso di leggere, non avendo finora letto nulla di questo autore, neppure “Caos Calmo”.
In seguito, nei miei programmi di lettura ci sarà Javier Marìas: un autore di cui ho iniziato, due volte, il suo “Un cuore così bianco”, lasciandolo interrotto senza un preciso perché.
Ora, nella mia testa, si apre la domanda sul tema della lingua, il nodo vero delle differenze culturali: Marìas è uno scrittore di nazionalità oltre che di lingua spagnola, dunque è europeo, non sudamericano. La mia difficoltà sta forse nell’universo di senso che questa lingua esprime? Un universo profondamente diverso dal mio, nonostante la parentela data dalla comune origine e i molti prestiti linguistici dallo spagnolo che si ritrovano nell’italiano – eppure quanto mi piacciono i libri di Alicia Jiménez-Bartlett, e non solo i gialli dell’Ispettrice Delicado! C’è il bellissimo “Una stanza tutta per gli altri” e non solo. Ci penserò, potrebbe essere una interessante rilettura e una proposta.
Di Javier Marìas ho in programma la lettura di un romanzo minore (così dicono): “Tutte le anime”. Vedremo. Forse mi consentirà di riprovare, con successo, la lettura di “Un cuore così bianco”.
Nei programmi c’è poi “La trilogia della città di K”, di Agota Kristof, che non ho ancora letto.
E c’è (tanto per contraddirmi subito sulla fine del mio periodo ‘americano’), la voglia di rispolverare “A sangue freddo“, di Truman Capote. Ma è una voglia, come dire, trattenuta, che non so ancora se avrà seguito.
Per completare il programma, vorrei leggere (un altro consiglio ricevuto da fonte attendibile) “L’estate senza uomini” di Siri Hustvedt.