Nella tranquilla provincia americana

Rumore bianco Don Delillo, “Rumore Bianco”, Einaudi 2014

Siamo ai primi anni ’80, negli U.S.A. Nella cittadina di Blacksmith c’è il College-on-the Hill. L’incipit è la rappresentazione dell’inizio dell’anno scolastico, con l’arrivo degli studenti che rivela fin da subito, in nuce, il contesto ambientale per la storia che seguirà.
Ci troviamo in un luogo ameno della provincia americana dove vive, con la sua famiglia estesa, Jack Gladney, voce narrante del romanzo, preside del Dipartimento di studi hitleriani del locale College.
Jack Gladney è un uomo grande e grosso, che porta occhiali neri per stare nel personaggio che la sua specializzazione comporta; è una persona tranquilla, direi mansueta, che vive, con la quarta moglie e figli dei precedenti matrimoni di entrambi, una felice vita familiare. Non parla il tedesco e lo deve imparare, almeno quel po’ che basta per ricevere gli ospiti del Convegno Internazionale di studi hitleriani che ha organizzato.
Con lui abitano la moglie Babettedi alta statura e di dimensioni piuttosto vaste. (…) una zazzera di un biondo entusiasta” e quattro dei figli che la coppia ha avuto da precedenti matrimoni: il piccolo Wilder, figlio di Babette, che è mamma anche di Denise, undici anni, “ragazza dal muso duro”, dai ferrei principi, molto impegnata  a controllare criticamente i comportamenti della propria madre, a cominciare dai propositi sempre disattesi di dieta; e c’è Steffie, coetanea di Denise, figlia di Jack, con il fratellastro Heinrich, un quattordicenne ipercritico che gioca a scacchi per posta con un assassino rinchiuso nel Penitenziario di Stato.
La famiglia abita “in fondo a una strada tranquilla in quella che un tempo era una zona di boschi con profonde gole”. E’ una famiglia molto legata, che conduce una vita serena dentro l’ambiente protetto della vita di provincia americana nonché delle consuetudini e dei riti della vita di college.
Un altro personaggio centrale del romanzo, oltre all’amico di Jack, Murray Jay Siskind, visiting professor di Icone Viventi (tiene un corso su Elvis Presley), è il Supermercato, i suoi colori, i prodotti, i riti degli acquisti e dei consumi cui partecipa tutta la famiglia, quasi una regolare gita in cui condividere abitudini di consumo e rituali di acquisto.
Un’anticipazione delle gite al supermercato è data dal momento della colazione a casa Gladney.
Il tavolo era affollato, (…) Wilder era ancora seduto sul banco, circondato da cartoni aperti, stagnola appallottolata, sacchetti luccicanti di patatine fritte, tazze di sostanze appiccicose coperte con fogli di plastica, anelli e strisce ritorte di aperture delle lattine, fette di formaggio all’arancia avvolte una a una.
Sullo sfondo della storia ci sono le precedenti mogli di Jack che “avevano una certa tendenza a sentirsi straniate dal mondo oggettivo, gruppo preso a sé e un po’ nevrotico, vagamente legato con la comunità delle informazioni segrete.” Figure di secondo piano che contribuiscono a dirci di una vita diversa in tanti modi apparentemente non tematizzati dai protagonisti, immersi nelle loro giornate tranquille, di buoni sentimenti, di affetto profondo.
Aleggia sul tutto una normalità fatta di consumi inconsulti, insegnamento universitario farlocco, famiglie allargate e relazioni confuse che faticano a comporre i ruoli. E c’è la violenza che non si vede, nascosta nei dettagli di un quadro di serena normalità.
Un giorno, in conseguenza di un incidente ferroviario ci sarà una fuoriuscita di gas tossico che provocherà l’evacuazione della città, con tutti i problemi che ciò comporta. “La nube tossica aerea” incombe e insegue la popolazione in fuga. C’è la possibilità di esser rimasti intossicati. Una possibilità concreta riguarda in particolare Jack.
Questo fatto incrocia un altro problema: sembra che Babette faccia uso di un farmaco, il Dylar, di cui non si conoscono né l’origine né le indicazioni terapeutiche; c’è un evidente segreto nella vita della donna, che mal si concilia con la sua solida e importante relazione con Jack, basata sulla totale sincerità reciproca.
Cessato l’allarme, in un tempo gravato dalla paura delle conseguenze della nube e, per Jack, dalla certezza di essere stato contagiato, si disvelerà l’enigma del Dylar assunto da Babette. E il romanzo di avvierà alla fine con un nuovo coup de theâtre davvero geniale, che a ben vedere stava tutto nelle premesse, ma giunge cionondimeno inaspettato attraverso una splendida abreazione, e conseguente catarsi, in cui il senso della vita viene ritrovato, almeno quanto basta per accettarne i limiti. Perché qui sta il tema del racconto: la umana paura della morte.
Già nei primi capitoli la parola ‘morte’, o suoi analoghi, è usata più volte, dentro discorsi diversi, in frasi secondarie, apparentemente a caso, mentre in altri momenti, senza essere designata, sta sullo sfondo: le ghirlande mortuarie e i teschi sulle bandiere del Reich, la domanda, nella coppia, su chi morirà prima, un assassino richiuso in un penitenziario, con cui Heinrich gioca a scacchi per posta, l’immagine di un gruppo di professori, trasandati, un po’ maleducati, che sembrano a Jack “una banda di camionisti riuniti per identificare il corpo di un collega fatto a pezzi”, (…) “cose smesse e cianfrusaglie. Oggetti, scatole. Perché simili beni hanno un peso tanto doloroso? Emanano oscurità, senso di presentimento (…)
Non ci si fa caso, tutto rientra nella perfetta rappresentazione di una società grottesca di cui vediamo le caratteristiche senza che ci risultino incongrue con una possibile serena vita privata.
Dovete proprio leggere il libro, se vi racconto di più, tutto è rovinato. Vi dirò ancora solo che entrano nel racconto – ma dovete arrivare quasi alla fine – alcune suore infermiere tedesche di raro interesse.