
Cristiano Caracci, “La luce di Ragusa”, Editrice Santi Quaranta, 2005
La Luce di Ragusa, di Cristiano Caracci, Editore Santi Quaranta, di cui ho scritto nell’ultima chiacchierata, è stata una bella lettura. Interessante per la qualità della scrittura e per la struttura del racconto che viene svolto attraverso il parlato, in prima persona, via via del rappresentante di una progenie di mercanti ragusani – ad ogni capitolo parla un figlio, che succede al padre nella conduzione di un’impresa mercantile di marinai che, trasportando via mare le merci più varie, accostano le realtà sociali dei Balcani e del mar Mediterraneo. C’è Venezia, di cui tener conto, da temere, ci sono i rapporti con le terre del Papa, ci sono le realtà sociali delle città dei Balcani. C’è soprattutto il mare, e la luce della città di Ragusa – Dubrovnik che riaccoglie, all’arrivo in porto, e che lega alla terra.
La storia inizia con un senza nome, il capostipite, marinaio schiavo, legato a una vita di sopravvivenza nella quale non c’è posto per la consapevolezza di sé. O molto poco. O giusto quanto basta per accogliere una rischiosa opportunità di riscatto. C’è l’incontro con quella che sarà la moglie di un uomo libero.
“(…) scegliere era privo di senso, così ciascuno si accoppiava subito, con violenza, nella penombra, senza nemmeno uno sguardo (…) Ma quella volta lei mi disse il suo nome e soltanto il suono di quella voce, un sussurro, mi spaventò e ancor oggi non capisco perché risposi con il nome mio e lei mi chiuse nel pugno un piccolo sasso bucato, un sasso bianco di quelli scavati dalle conchiglie che mangiano le rocce.”
C’è, a partire da questo incontro, l’aprirsi alla possibilità del sognare, l’aprirsi al pensare un futuro, l’aprirsi alla vita di un uomo libero, affrancato dalla schiavitù.
“Si dice che gli schiavi non sognano ed è verità (….); mai avevo capito cosa fossero le immagini notturne di cui mi aveva parlato un frate; non comprendevo il padrone, quando i cani guaivano dormendo e lui diceva che sognavano; quella notte, però, qualche cosa, forse, mi era apparso nel sonno, svegliandomi per lo spavento: per la prima volta, forse, avevo sognato, seppure soltanto un sasso bucato, proprio quello che ho ancora in tasca. (….) Dormiamo in un letto, e anche lei si spaventa al primo sogno.”
Con l’inizio di una vita a due, e l’attesa di un figlio, c’è la faticosa conquista di una libertà fragile e prossima a essere nuovamente perduta. C’è il doloroso abbandono di Ragusa-Dubrovnik, la loro terra, cui i due senza nome sono costretti per non ricadere in schiavitù. L’emigrazione in Bosnia, a fare i contadini, via dal mare, costerà loro l’abbandono da parte del figlio, Dussan che, affascinato dai loro racconti e dalla loro nostalgia, a Ragusa farà ritorno. “Si tentava di raccontargli il mare, ma non sapevamo cosa dire. Era difficile anche dire i colori, i profumi, il sapore di un’orata: l’oleandro è più rosso, le zagare più inebrianti, l’orata più buona…(…) Maledico quella città amata da cui si era dovuti fuggire e in più, oggi, ci rubava il figlio.”
Con Marino, figlio di Dussan, inizierà la lenta salita, la costruzione di una vita di mare e commerci
Siamo nel XVII secolo. Sono gli anni in cui la scoperta dell’America lentamente porta a morte le rotte che nei secoli erano state privilegiate, gli anni in cui il mondo cambia, e il romanzo non parla di questo ma lo trasmette nell’esperienza del commercio, della vita sociale, del variare delle opportunità.
Il terremoto del 6 aprile 1667 distruggerà Ragusa, e chiuderà l’epopea della famiglia. E il romanzo. Una chiusura che preconizza la morte di una civiltà. E tutto il romanzo è intriso di nostalgia, innanzitutto per la luce di quel luogo che l’ultimo della famiglia dovrà lasciare. Piove sempre a Ferrara, come in Bosnia, e, forse, la mia via era segnata, lontana dalla luce, lontana dal mare di Ragusa.
Ora, e questo certifica la qualità del romanzo, dovrò necessariamente, non potrei farne a meno, documentarmi su quella storia, su quel periodo, di cui credo si conosca poco, o magari tale non conoscenza è una grossa lacuna solo mia: la storia di Venezia sovrasta e, a quanto pare, nasconde le perle che la circondavano. Mi pare di doverlo, comunque, all’autore del romanzo che ha ora pubblicato, con lo stesso editore, “Adriatico insanguinato. Genova, Aquileia, i Carraresi, l’Ungheria contro Venezia. Lo leggerò con piacere.