Siri Hustvedt, “L’estate senza uomini”, Einaudi 2013
Incipit: “Qualche tempo dopo che lui aveva detto la parola ‘Pausa’, impazzii e finii in ospedale. Non aveva detto “Non voglio vederti mai più”, oppure “E’ finita” ma dopo trent’anni di matrimonio ‘Pausa’ bastò a trasformarmi in una matta i cui pensieri si scontravano esplodendo e rimbalzando come pop corn nel microonde”.
Il seguito è leggerezza e profondità, sorriso e ironia lieve, dolore buono, se si può dire così, e persino allegria. Ed è corporeità. Buona e integra.
La protagonista, Mia Fredricksen, poetessa ultracinquantenne, docente universitaria, felicemente sposata da trent’anni con Boris, neuroscienziato, dopo il ricovero ospedaliero sceglie di trascorrere l’estate al paese dove vive la madre, anziana ospite di una struttura di alloggi protetti per anziani.
L’estate si svolgerà all’insegna del “senza uomini” e di una non programmata rivisitazione del femminile: un femminile universale, che certo ha a che fare con una rivisitazione di sé, nel momento in cui la vita di Mia sta radicalmente cambiando e lei deve trovare un ancoraggio per la propria identità; ma anche una rivisitazione che ne prescinde, scendendo al caso particolare, il suo, solo in via deduttiva, fornendo risposte al suo bisogno di restituire un senso a ciò che le è successo, per mantenere un sé non scisso.
Mia – “donna scartata” – si organizza un tempo in cui ritrovarsi: vicina alla madre; procurandosi un piccolo alloggio per sé in cui ricevere le visite della sorella e della figlia, organizzando con l’associazione culturale locale un “laboratorio di poesia” per adolescenti.
“Avrei passato il tempo con mia madre e avrei portato fiori sulla tomba di mio padre”. L’incontro con le amiche della madre sarà il primo universo femminile, quello della vecchiaia, dal quale trarre spunti per interessanti conti sulla vita, sul corpo, sulla sessualità, sul matrimonio. Mia incontrerà così Georgiana, centodue anni, felice di avere ancora tutte le rotelle a posto, e poi Regina, Peg e, soprattutto Abigail, una vispa novantaquattrenne, piegata in due come un uncino, con cui si formerà un particolarissimo rapporto al femminile, fondato sul racconto di particolari ‘divertimenti segreti’, che l’anziana svelerà a Mia. Ci sarà il gruppo di lettura in cui sono impegnate sua madre e le amiche, alle prese con “Persuasione” di Jane Austen.
Le cinque donne “vivevano in un presente feroce perché (…) per loro la morte non era per nulla astratta”; ma anche la loro vita manteneva tutta la propria concretezza, la specificità delle storie individuali, declinata e condivisibile nel femminile che le accomunava: “Per lo più avevano perso i mariti da tempo, ma erano sopravvissute e in quegli anni non avevano dimenticato i defunti sposi, sebbene non si fossero nemmeno aggrappate al loro ricordo, a quanto pareva. Anzi, il tempo le aveva rese formidabili.” E reggevano la realtà della propria vecchiaia e la possibilità, l’imminenza, del “buco nero” che le avrebbe potute inghiottire in ogni momento, come aveva inghiottito altre amiche che avevano visto andare, senza troppo dolore.
“Invecchiare va benissimo. L’unico problema è che il corpo va a pezzi”: dice sua madre. E Mia si rende conto che la madre, per lei, “era un luogo, oltre che una persona”, un ‘dove stare’ – impossibile non pensare al “da mihi ubi consistam, et terram coelumque movebo” di Archimede, e una sua impropria traduzione in senso esistenziale: “Dammi un dove stare, un qui ed ora da cui io io possa partire, consentimi di sapere chi sono, e solleverò cielo e terra”. Spero mi sarà perdonata la libertà di traduzione, ma questa definizione della madre mi ha molto colpito e, inevitabilmente, particolarmente per questo libro, scrivo anche per me.
“Avrei insegnato poesia alle ragazzine dell’Art Guild, l’associazione culturale locale”: come presumibile, il gruppo si rivelò composto da tredicenni tutte femmine. Peyton, altissima e piatta, Jessica, piccola e femminile, Emma, nascosta dai capelli, Ashley, che “camminava e si sedeva con l’aria insicura che deriva da una zona erogena acquisita da poco” e che con Jessica, Nikki e Joan formava la “Banda delle Quattro” “cariche di orecchini penzolanti, con le labbra lucide, l’ombretto e magliette ricoperte di scritte che lasciavano scoperte pance più o meno piatte.”
L’incontro con questo universo della crescita, del formarsi, primariamente sociale, del femminile, costituirà un banco di prova e di conoscenza che darà luogo a storie, di dolore e di formazione, di comunanza e di scontro. E di scrittura, che tradurrà le relazioni, i sé, i corpi in cambiamento.
Emerge, potente, il tema della sessualità, le sue declinazioni e il suo permanere nelle diverse età della vita; il tema del matrimonio, il tema della differenza; emergono dialoghi (anche con il lettore, che viene richiamato per nome, dentro le riflessioni in corso) e pensieri in libertà. E i pensieri, su di sé, hanno un corpo, così come sono rappresentate con, e a partire dal, corpo le altre donne, le vecchie, le ragazzine, le loro madri, la giovane vicina di casa con marito maltrattante, i suoi bambini. E i maschi che non ci sono ma compongono lo sfondo, il termine di paragone, l’alter ego cui contendere/con cui condividere lo spazio nel mondo.
Rivendicando la scrittura e la lettura e la loro corporeità (“la parola scritta nasconde il corpo di chi scrive”), esplode ilare la riflessione sul divieto, un tempo suggerito alle donne, di dedicarvisi, particolarmente alla lettura e, sia mai, alla scrittura di romanzi: “Come passatempo per giovin signore, leggere romanzi significava rossori e scabrosità. La logica: leggere è un passatempo privato, che spesso ha luogo a porte chiuse. Una giovin signora potrebbe ritirarsi con un libro, persino portarlo nel suo boudoir, e là, distesa su lenzuola di seta, immersa nei brividi e nei fremiti vergati con calami letterari, una delle sue mani, quella non indispensabile per reggere il piccolo volume, potrebbe vagare. Il timore, in poche parole, era la lettura a una mano sola.”
Ovviamente, la storia è a lieto fine.