Ottobre si chiude con belle letture in corso

Vienna. Casa Wittgenstein oggi.
Vienna. Casa Wittgenstein oggi.

Comincerò con due chiacchiere, perché mi va bene così, ne ho voglia (è un buon motivo) e perché credo siano congrue con questo spazio. Saranno chiacchiere sulla lettura, naturalmente, anzi, sull’attività del leggere, che è di tanti tipi, e così dev’essere se non vogliamo cadere in quella specie di figura retorica che è il recensore-tipo, intellettuale (crede lui) e poco capace di godere di quello che fa, cioè leggere, riflettere su ciò che legge e scriverne: poi non è così, questo tipo non esiste, ma esiste lo stereotipo, ed è, tra l’altro, maschile. Il che ha a che fare con quello di cui racconterò poi su uno dei libri che sto leggendo e di cui parlerò.

Occorre dire, anche se è quasi ovvio, ma a scanso di equivoci che, come tutti (tutte?), non leggo solo ciò che recensisco e neppure solo i libri di cui parlo nel blog: prima cosa, perché la lettura è anche un passatempo per quelli che io chiamo i (bellissimi) tempi perduti (in autobus, dal medico, che – non credo solo il mio – ha una dotazione di riviste decisamente improbabile e contraria ad ogni umano desiderio). Li chiamo ‘bellissimi’ perché sono i tempi, per un verso, da perdere obbligatoriamente, e che pertanto non ci si sente in dovere di rendere proficui; per altro verso, e in conseguenza, liberi, da usare per se stessi come nessun altro tempo mai: che sia per pensare ai fatti propri (l’autobus) o per leggere senza impegno (le sale d’aspetto), si è liberi dall’ansia che, nella nostra cosiddetta civiltà, ci fa sentire la necessità di non essere tacciati come perditempo, sfaccendati, nullafacenti, neppure per un minuto.

C’è poi la notte che, essendo anch’essa un tempo di lettura privilegiato, talvolta si caratterizza per un’entrata nel letto a ore impossibili e preda di sonno invincibile e dunque, se è certo che non si può prender sonno senza un libro, è altrettanto certo che si cadrà addormentati sulla prima pagina e dunque va esclusa la lettura di un libro che si stia davvero leggendo. Sono le evenienze in cui Harry Potter è oro, uno qualunque dei libri della saga, aprendolo a un punto qualunque della storia.

Non vorrei ingenerare equivoci, io ho molto apprezzato la “Saga di Harry Potter”, me la sono proprio goduta e anche riletta da capo a fine; ora è uno di quei libri, come “Il signore degli Anelli”, da comodino, utilissimi al sonno perché gradevoli, conosciuti, apribili a qualsiasi punto della storia e di cui si può leggere un pezzo, anche piccolo, con piacere, al salto, diciamo così. E addormentarsi bene.

E, sempre tanto per deviare, in una conversazione che pare non avere una linea guida, ho letto un altro romanzo pubblicato da J.K. Rowling, Il seggio vacante di cui ricordo solo una delusione e null’altro. Cancellato dalla memoria. Mah! Forse perché mi aspettavo qualcos’altro? Dovrò ridarci un’occhiata. Forse la Rowling, essendo responsabile della saga di Harry Potter, per me le resta legata e vivo un rifiuto a consentirle di scrivere un altro genere di libri; un po’ quello che capita al povero Camilleri costretto a far uscire libri (sempre in peggioramento) sulla ‘saga’ del commissario Montalbano se minimamente vuol sperare che sia letto qualcos’altro di suo. E questo, in modo totalmente indipendente dal valore del libro.

Sto chiacchierando a vanvera, e questo (forse) non va bene. Ma forse anche sì, perché riguarda l’attività del leggere e le sue molteplici sfaccettature.

Ma per tornare, venire, alla lettura: Sto ora leggendo “L’estate senza uomini”, di Siri Hurstvedt, e “Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere” di Franco Lo Piparo, che sto, si fa per dire, studiando.

Ed ecco che sorgono problemi perché si sa, specialmente con libri tipo quest’ultimo (ma accade anche con i romanzi), un libro tira l’altro, una frase apre interrogativi, un riferimento porta a deviazioni e la lettura si fa multipla e potenzialmente ampliabile all’infinito.

E dunque, una ipotizzata recensione di questo libro (che ne apre evidentemente molti altri, non per recensirli ma, certamente, per comprenderlo, nel senso etimologico del termine, a dovere – ne vale la pena, è un bel libro, interessante) sarà spostata un po’, spero non molto, più in là.

E inoltre, anche se nei miei programmi c’era di interrompere per un piccolo momento la narrativa, Siri Hustvedt è una vera scoperta. Non conoscevo questa autrice e ringrazio l’amica che me l’ha proposta.

E credo sia utile dire due parole su questa autrice che, pur presente nel catalogo Einaudi e nel panorama letterario anche italiano, è stata presentata come ‘moglie di Paul Auster’ mentre, è stato giustamente fatto osservare, nessuno direbbe di lui ‘marito di…”.

Siri Hustvedt, dunque. In questo caso, si può proprio dire, un’autrice che fa del femminile la propria cifra. E questo potrebbe essere un limite, anche non da poco, se non fosse che il suo femminile è un universale, per quanto calato, e ben agganciato, alla realtà della donna occidentale contemporanea. Ma resta un universale, che non si propone in opposizione, ma per sé.

Almeno, dalla lettura in corso, questo a me pare, anche se per ora lo dico solo in via interlocutoria, provvisoriamente, comunque non considerandolo un limite, qualcosa che possa collocare Hustvedt in una nicchia. Scusate il paragone, improprio, ma sarebbe come dire di Hemingway che è un autore limitato dall’ottica maschile dei suoi scritti, che hanno appunto il maschile, un universale maschile, come cifra, come punto di vista da cui vedere il mondo, misurarsi e misurarlo. E questo non rende Hemingway uno scrittore limitato, settoriale.

Ho scelto il libro forse meno noto di Hustvedt e più caratterizzato sul fronte del femminile, credo. So già che mi affretterò a leggere altro di suo. E mi piacerebbe, particolarmente per questa autrice, sentire altre voci.

Einaudi ha pubblicato quattro suoi lavori: “La donna che trema. Breve storia del mio sistema nervoso”, “Elegia per un americano” e “Quello che ho amato”, oltre a “L’estate senza uomini”.

Chiudo con l’attesa di una nuova lettura, Taiye Selasi, “La bellezza delle cose fragili “un suggerimento di un’amica, lettrice di questo blog. Per ora, è iscritto nel mio quaderno dei desideri, in attesa della prossima gita in libreria e del prossimo bottino.