Haruki Murakami, “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”, Einaudi 2008
Che bel libro! Piacevolmente irritante e impossibile da lasciare, ad ogni “adesso basta!” che sorge dal cuore nel corso della lettura – dallo stomaco? dalla pancia? da <dentro>, comunque. E la lettura prosegue ossessiva e irrinunciabile.
Un libro che ti porta altrove, anche se alla fine non ne sei poi tanto sicura: racconta di un mondo – due “Città”, in effetti – dalle quali è stata eliminata l’interiorità delle persone che le abitano, ciò che Murakami chiama “il cuore”; e dunque, un libro che trasuda quel “cuore”, quell’interiorità, ad ogni riga. E ti porta ad intrecciare la nostalgia con il sorriso, e con l’amore, e con la gentilezza, e il carico dei ricordi senza i quali paradossalmente le spalle portano un peso insostenibile – e, ineluttabilmente, si piegano.
Due città – due mondi, ognuna delle quali rappresenta una totalità a se stante, dove non esiste un pensiero che consenta l’andare oltre: anzi, nell’una, circondata da un alto invalicabile muro, al di fuori c’è, per definizione, “la fine del mondo”.
L’altra, è una Tokio rappresentata in un tempo fermo, non proprio in un futuro, piuttosto in un tempo a-storico: un tempo nel quale il movimento, la possibilità del sorgere di avvenimenti non sembrerebbe far parte della vita degli abitanti. Potrebbe essere il Mondo delle Meraviglie, che senza bisogno di creare obblighi ti ghermisce e non ti consente più il pensiero di andare.
Ambedue le città costituiscono, ognuna per sé, un tutto in sé concluso. Anche se, in questa Tokio, in questa Città delle Meraviglie, c’è qualcuno il cui lavoro di esperto nel criptare dati è un non meglio definito (e pericoloso!) “fare shuffling”: echeggia, almeno per me, qualcosa come “Keep kalm and start shuffling” – “Stai calmo, e continua a muoverti.”
A Tokio il movimento, la vita che comincia a correre, si presenterà, per il primo protagonista – il Cibermatico – etimologicamente, dovrebbe essere uno specialista di realtà virtuale – attraverso il suo lavoro, nel corso del quale incapperà in uno ‘scienziato pazzo’ – che ne utilizzerà l’attività professionale mettendolo a rischio della vita. Anzi, di più.
Da qui si avvierà per il Cibermatico l’avventura, scandita dalle tappe di un percorso in un particolare sottosuolo della città, abitato da mostri, putrido e invaso da esseri repellenti – fantasmi di una discesa in un ‘dentro’ sconosciuto? – che comunica con la superficie e con la vita normale (potremmo dire normata) della città avendo quale interfaccia la metropolitana. Ancora qualcosa che ha a che fare con il movimento – circolare, concluso, e dunque inesistente.
La seconda Città non ha nome ed è, questa sì, propriamente un Non Luogo, circondata da un alto muro, al di là del quale non c’è possibilità di andare, non c’è la possibilità stessa di concepirne il pensiero.
Nella Città, oltre alle persone, gli unici viventi sono gli unicorni; i soli che ogni giorno varcano i cancelli ed escono, per rientrare la sera.
Chi ci vive, chi ha ‘scelto’ di entrarci, provenendo da un dove inesprimibile, non potrà più uscirne avendo, al momento dell’entrata, acconsentito a venir separato dalla propria ombra – fisicamente, attraverso un taglio, effettuato per mezzo di un coltello.
Questa operazione, questo rito di accesso, reciderà i ricordi della persona, e la sua capacità di provare sentimenti profondi. La sua Ombra vivrà, separata, spegnendosi lentamente, in un luogo controllato dal “Guardiano della città”. E quando l’Ombra morirà, e la separazione sarà divenuta definitiva, l’Io cui apparteneva sarà finalmente tranquillo, cittadino a proprio agio nella città, una mente senza ricordi e senza il desiderio di possederne.
Il secondo protagonista, da poco entrato a vivere nella Città senza nome, è “Il lettore di sogni” che vive, privato dei propri ricordi ma ancora preda delle emozioni del tempo in cui viveva con la propria Ombra, deciso a rivederla e a trovare il modo di ricongiungersi a lei: senza saperne bene il perché, e intimamente provato da un senso di perdita. Il suo lavoro, dal fine incompreso, è leggere i sogni che ‘vede’ nei teschi degli unicorni, conservati nella Biblioteca.
Le due storie si alternano nei capitoli, in una falsa contemporaneità figlia del tempo assente. Nella Città murata, al centro della Piazza, divisa in due dal Ponte Vecchio, sulla torre dell’Orologio, neppure l’ora del giorno è veramente leggibile: “La Torre era tanto alta e dritta che per leggere l’ora sarebbe stato necessario attraversare il ponte e andare nella parte meridionale della città”.
I protagonisti delle due storie non hanno nome. Nelle due città nessuno ha un nome.
C’è il Colonnello, gentile vicino di casa del Lettore di Sogni, che gli spiega la Città e lo rassicura su di un futuro in cui i sentimenti non lo disturberanno più – mentre esprime una inconfessata e forse non saputa nostalgia per una precedente vita di cui non possiede ricordo. C’è il Vecchio scienziato pazzo, c’è la Ragazza Grassa. In ambedue le città c’è La Bibliotecaria.
E in ambedue le storie, mentre le vicende dei protagonisti si svolgono, qualcosa dell’una echeggia nell’altra, qualche elemento di un mondo riverbera sull’altro, si intravvedono rimandi. E c’è una attesa, mentre le due realtà rinviano il lettore dall’una all’altra in un rimpallo che costituisce una sfida costante.
Il romanzo, a dir poco, disorienta mentre, sotto una patina di leggera ironia, induce rimpianto, speranza, desiderio di un’umanità dotata di “cuore”, della possibilità di essere, e vivere da, individui interi e integri. Se ne trae uno speciale ricordo di sé, o di ciò che è nel nostro desiderio essere, di un’intensità a volte lancinante. L’ironia si stempera, coinvolge nella partecipazione a un bisogno condiviso, non ha tracce di sarcasmo, anzi non c’è.