Nell’ultima settimana ho fatto una (falsa) partenza verso una attesa gita in libreria: programmato un tempo idoneo e partita, ne sono tornata delusa, con due soli libri in mano: un romanzo dal titolo accattivante “Svegliamoci pure ma a un’ora decente”, di Joshua Ferris (giovane autore a me sconosciuto), editore Neri Pozza, e un libriccino “La natura diacronica della coscienza” di Julian Jaynes: un piccolo Adelphi di colore blu, un trentina di pagine.
Il romanzo mi era parso corrispondere alla mia idea di leggerezza e qualità; la quarta di copertina confermava positivi, anzi entusiastici, giudizi.
Quanto al piccolo saggio, l’ho acquistato con curiosità, un autore noto e quasi (da me) dimenticato, una specie di rimpatriata. Julian Jaynes, psicologo statunitense, è morto nel 1997, e dunque questo libriccino, che riprende un suo intervento tenuto ad un Convegno alla Fondazione Cini di Venezia nel 1991, edito da Adelphi quest’anno, è qualcosa la cui pubblicazione non è stata decisa dall’autore, è una scelta editoriale come dire, da capire. La lettura del suo più conosciuto e controverso lavoro – “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” – è invece rimasto nei miei ricordi come un interessante malloppone che, a giudicare dell’estrema pulizia con cui è tenuto il libro (niente note ai margini, né sottolineature), non devo aver letto con particolare partecipazione, mentre ne conservo un ricordo rispettoso (che razza di aggettivo, ma mi risulta corrispondere a ciò che voglio dire). Questo libriccino potrebbe costituire un piccolo ripasso per vedere se vorrò riprendere e rileggere il malloppone.
Già a questo punto la gita era stata poco soddisfacente. Non ero riuscita a trovare altro che mi andasse bene. Forse non l’avevo programmata nel dovuto modo, non so, forse in questo momento ho, possiamo dire, la scelta difficile, ma ho girato per quasi due ore senza recuperare altro di mio gradimento.
Ero partita anche senza aver già deciso acquisti da fare; solitamente ho una piccola lista. Ma il piacere sta nel girare tra gli scaffali e trovare l’inatteso, il non saputo, e tornare casa con un buon bottino, di che sopravvivere almeno un mese, aggiungendovi la risorsa di ciò che si trova in casa e che non è da considerarsi abbandonato.
C’era in ogni modo la voglia di dedicarmi ai due libri acquistati.
Non è andata del tutto così: la sera, dato uno sguardo al piccolo saggio (praticamente un lungo articolo), me ne sono andata felicemente a letto con il nuovo romanzo.
L’avvio della lettura è stato dei migliori, davvero, ma ero stanca, non ho letto a lungo. Il pomeriggio seguente ho ripreso il libro per regalarmi un tempo rilassato e, dopo una mezz’ora, ho cominciato a sentire quella montante irritazione che deriva da una lettura che si trascina, e quella buona vena di umorismo e autoironia che aveva piacevolmente caratterizzato l’avvio di lettura (genere: l’argomento potrebbe essere, anzi è, serio, ma io sono un tipo che prende la vita con filosofia e non intendo tediarvi) continuava senza che ci fosse granché da masticare: pareva ormai certo che il libro sarebbe proseguito su quel tono divenuto un tutto privo di contenuto.
La sera, a pagina 115 (su circa 350), il libro è stato lasciato e forse non verrà mai più ripreso. Il che non vuol dire che non vada bene per nessuno; è inoltre d’obbligo il dubbio che valga la pena, anche per me, di riprovarci, (dopotutto niente da dire sulla qualità della scrittura e anche il rispetto per l’editore induce a ciò) per la assoluta sindacabilità (e provvisorietà, di default), del mio giudizio.
Solo una amara riflessione: talvolta, spesso, gli incipit imbrogliano. L’avvio di questo romanzo è davvero ben costruito.
Così, ‘orbata’ della mia scorta di libri (Jaynes è un aperitivo, nonostante la probabile densità dello scritto), ho preso a rovistare nelle mie librerie, saltando da genere a genere, in difficoltà causa umore fetido. Ho pensato che potrei rileggere un bel giallo, non ne leggo da un po’ – la scelta credo finirà su “La morte non sa leggere” di Ruth Rendell: e se così sarà, ne parlerò, è una storia, una trama, molto particolare. In alternativa, ho (forse) voglia di rileggere “Riti di morte”, conosciutissimo noir di Alicia Giménez-Bartlett. La voglia nasce dal fatto che è il primo della serie con protagonista l’Ispettore Petra Delicado e dunque può consentire uno sguardo d’insieme su di un’autrice che mi piace molto, dal fondo dell’aver letto tutta la serie.
Ma infine – non si cerchi una logica in questo, solo l’esito di un essermi persa nel percorrere scaffali, nel fermarmi a nuovamente accarezzare, per poi riporre, ricordi – è caduto nelle mie mani un vecchio libro, chissà come dato che, nell’intenzione cosciente ero partita alla ricerca di un’opera di narrativa – come l’avevo definita? – “leggera e di qualità”.
J. K. Galbraith, “Il grande crollo. La crisi del 1929”, Etas Kompass 1966. Ma certo! Di questi tempi, come mai non è tornato in auge a vele spiegate? O non me ne sono accorta? Tra l’altro, oltre alla qualità dell’opera, non ci può essere dubbio neppure sulla ‘leggerezza’: è una lettura assolutamente piacevole, una dimensione contenuta (circa 200 pagine) che testimonia la capacità dell’autore di chiarezza e sintesi, data dalla padronanza sia della materia sia della scrittura. Chissà se riuscirò a proporvelo (si richiede la <mia> capacità di sintesi, e dunque è opportuno porre il dubbio). A fra poco: con Galbraith o con un bel giallo?
Nota: a parte la mia edizione, il libro di Galbraith si trova, Euro 7,65 cartaceo (dunque, incredibile, di questi tempi, non è tornato in auge.)