“Afropolitan”, la forza dell’identità

La bellezza delle cose fragiliTaiye Selasi, “La bellezza delle cose fragili”, Einaudi 2013

Un interessante romanzo, opera prima di una giovane scrittrice peraltro già in precedenza, per lavori minori, accreditata come una delle voci più interessanti del nuovo panorama letterario, per la qualità della scrittura, per la capacità di costruire e sviluppare una narrazione originale e, non secondariamente, per la interessante proposta-presentazione di un modo dell’identità, familiare e individuale, nel mondo, caratterizzato dallo sradicamento, dell’emigrazione, quando questa si coniughi ad una forte assertività, sostenuta da un progetto di sé, dalla tensione verso un obiettivo che valga la fatica e lo strappo dal proprio mondo.

Taiye Selasi racconta la storia di una famiglia di origine africana la cui coppia fondatrice, Kweku Sai e Folàsadé (Fola) Savage, è composta da due giovani studenti africani immigrati negli USA. La storia si avvierà a partire dalla fine di un percorso di integrazione segnato dal fallimento, con la morte di Kweku, prematura e tuttavia, in qualche modo, iscritta nelle cose avvenute e, se non voluta, certo accettata.

Kwaku Sai, ghanese, è un chirurgo di eccezionale capacità che, con la moglie Fola Savage, nigeriana, lavora alla costruzione di un futuro per sé e per i propri quattro figli – Olu, il maggiore, maschio, che diverrà medico, come il padre; i gemelli, Taiwo, la ragazza che complicherà la propria vita e Kehinde, il fratello artista; ultima, Sadie, la piccola, intrappolata nella bulimìa.

Un incidente di percorso, la morte di una ricca paziente per la quale viene ingiustamente accusato il dottor Sai, farà crollare il progetto. La coppia si romperà, Fola resterà sola, con i figli, a cercar di costruire, comunque, una famiglia: ma accadranno cose, ci saranno difficoltà e Fola vedrà i figli disperdersi, ognuno di loro segnato da ferite irrisolte, ognuno teso alla costruzione di un proprio futuro isolato dagli altri, ognuno lontano.

Kweku è ritornato, da solo, in Ghana. Ha una nuova moglie. Ama sempre Fola ed è straziato dalla perdita dei figli.

L’incipit mostra da subito la struttura della narrazione: “Kweku muore scalzo, una domenica all’alba, le pantofole all’uscio della camera, come cani.”

Da qui, ci sarà la ricostruzione in flashback delle vite dei singoli protagonisti e del punto di vista di ognuno su di sé e sulla famiglia, fino al momento sincronico – la famiglia riunita per il funerale del padre.

Qui, con la sincronia ritrovata, nel punto in cui la morte del padre ha creato il convergere, per ognuno, nello stesso tempo e nello stesso luogo (dove il tempo della loro storia è iniziato e nel luogo cui appartengono, senza averlo saputo) si avvierà l’apertura di un nuovo percorso reso possibile dal ritrovare un tempo e un luogo condivisi, che consentiranno l’elaborazione dei lutti e dei silenzi che li avevano separati.

Il percorso familiare smarrito verrà ricomposto: come se, con la sua morte – per crepacuore, l’infarto che lui ha sentito arrivare senza opporvisi – Kweku avesse dato un nuovo avvio al tempo: in terra d’Africa, dove era tornato a vivere e dove ora viveva anche Fola, lasciati i figli e lasciata dai figli, senza che l’uno sapesse dell’altra.

Il punto che riporterà la sincronia nelle vite divise della famiglia sarà dunque l’incontro con l’Africa; con la casa che il padre aveva progettato e costruito; con i riti; con i colori e i suoni.

Questo romanzo ha riscosso, immediatamente, un grande consenso di critica. E’ stato preceduto da lavori, per così dire, preparatori, quali una lunga novella, “Bye-Bye, Babar” che ha proposto, e accreditato il termine ‘afropolitan’, in seguito sviluppato da Achille Mbembe, un filosofo camerunense le cui opere, scritte in lingua francese, ad oggi non mi risultano tradotte in Italia (salvo una di difficile reperibilità, edita da una piccola casa editrice).

Il concetto mi incuriosisce, e dovrò trovare qualcosa di questo autore. “Afropolitan”: la parola indica un’identità di giovani immigrati di origine africana, di seconda generazione, che si propongono al mondo con capacità di relazione e di adattamento, che esercitano affermando e impugnando la propria ‘africanità’, capaci di vivere la contraddizione di una forma di ‘apolidia costruttiva’, integrando linguaggi, sviluppando percorsi originali di opportunità e di realizzazione.

Questo mi pare di aver capito. E questo, mi pare sia il canovaccio di un’opera che, ponendosi – anche – come ‘romanzo non fiction’ ha le conseguenti caratteristiche autobiografiche, in parte tuttavia rese attraverso aspetti di ‘fiction’, su cui la storia è costruita, in parte come vera non-fiction, ricostruzione di una storia familiare che appare tale non tanto negli accadimenti ( la cosa è ininfluente) quanto nella forma del percorso di costruzione di quella identità ‘afropolitan’ che – ma si vedrà alla fine – apparirà nei modi dell’appartenere a un luogo che si scopre proprio, in una casa progettata e costruita a partire da sé, tale da poter essere il luogo in cui morire.

Molto di questo romanzo è rintracciabile nella storia di vita dell’autrice, a parte, appunto, la trama, le specifiche esperienze di vita dei suoi personaggi, le cose che accadono ad ognuno di loro.

Il romanzo risulta così, e questo è forse un limite, caricato di obiettivi multipli, forse non del tutto compatibili. Taiye Selasi sembra aver messo tutto di sé in questa storia, in parte senza riuscire a farla divenire quell’altro da sé che, per poter dare al personaggio di fiction una vita propria, deve nascondere l’autore. Nel contempo, ha gestito, con grande maestria, il percorso narrativo, indicato fin dall’incipit, sul tema dell’identità afropolitan, delle radici che consentono l’andare, appartenendo ad ogni luogo del mondo, senza perdersi. Davvero una grande maestria, resa ancora più pregevole dalla scrittura.

Confesso tuttavia che, leggendo, ho avuto difficoltà a non vedere, sempre, in primo piano, l’autrice, una persona che parla di sé, rendendo difficile la mia identificazione, la mia adesione, come lettrice, ai vari personaggi. In particolare per quanto riguarda il personaggio di Taiwo (ma anche il suo gemello Kehinde) in cui, mi pare, Taiye Selasi è maggiormente rappresentata.

Sarà interessante vedere i prossimi lavori di questa scrittrice. E’ possibile che questo libro abbia liberato l’autrice da una eccessiva centratura autobiografica. E’ possibile tuttavia che questa ne abbia esaurito la sorgente creativa. Restano un’opera e una scrittura che fanno sperare in suoi prossimi lavori, che varrà sicuramente la pena di leggere.