Perché niente è come appare

Quelo che ho amatoSiri Hustvedt, “Quello che ho amato”, Einaudi 2004

Quello che ho amato” è uno dei primi romanzi di questa autrice, qualcuno dice il più bello, pubblicati in Italia.

La storia si svolge a New York. Leo Hertzberg, voce narrante, è un critico e professore di storia dell’arte, affetto da problemi di vista che lo condurranno nel tempo alla quasi cecità. Nato a Berlino, è figlio di ebrei tedeschi fuggiti nel 1933 dalla Germania nazista, dove invece hanno scelto di rimanere una nonna e la famiglia degli zii, con le due figlie gemelle, Anna e Ruth. “Furono tutti assassinati. Custodisco la loro fotografia nel cassetto”. Leo aveva cinque anni quando la sua famiglia abbandonò Berlino, e la loro casa, più volte ricordata, di Mommsenstraße 11.

Leo vedrà un quadro, di Bill Wechsler, un pittore ancora sconosciuto, dal titolo “Autoritratto” e che, incongruamente, ritrae una donna. Di fronte alla figura femminile si intravvede un’ombra la cui posizione potrebbe identificare chi guarda, così come il pittore. Decide di acquistarlo e vuole conoscerne l’autore. Nascerà l’amicizia di una vita.

Leo racconterà gli ultimi vent’anni della propria vita e della vita dell’amico pittore, condivisa, nella quotidianità, con le mogli, compagne: sua moglie Erica, come lui figlia di genitori ebrei tedeschi fuggiti negli USA, madre del loro bambino, Matthew, e Lucille, moglie di Bill e madre del loro figlio Mark, che lui lascerà per vivere con Violet, la sua modella, l’amore della vita.

Il racconto si avvia a ritroso, dalla fine di una storia segnata dalla perdita, e dal disperdersi dei protagonisti in vite separate pur nel permanere degli affetti.

L’incipit – “Ieri ho trovato le lettere di Violet a Bill” – pone la cornice, che si definirà alcune righe dopo – “Ormai i miei occhi sono malati e mi è occorso molto tempo per leggerle, ma sono riuscito a decifrare ogni singola parola.” Si apre il tema, centrale, del vedere: i quadri, le opere di Bill, gli ambienti, in cui i due amici vivono, New York, Soho. E le persone. I comprimari, figure di grande plasticità.

Leo, il critico d’arte, ‘mostra’ ciò che narra, mentre il tema della cecità incombente sarà lasciato a margine, quasi scordato nella sua centralità fino alla chiusura: “La prossima primavera andrò finalmente in pensione. Il mio mondo si restringerà, (….) mi hanno trasformato in un personaggio venerando. Suppongo che un professore di storia dell’arte quasi cieco emani un’aura romantica. Ma nessuno sa che (….)”.

La storia intreccia il cosa ognuno vede, di sé e dell’altro, intreccia i pensieri sul veduto, intreccia il tema di ciò che perdiamo e di ciò che tratteniamo, di ciò che in quanto perduto permane, nella staticità, ad esempio di un quadro, come nelle infinite possibilità di rilettura. “Niente è come appare. Sono le sensazioni, le idee, a modellare ciò che abbiamo di fronte (…). Solo dell’incertezza possiamo essere certi”

Per questa via, la storia mostra il punto di vista di ognuno dei personaggi, mentre la sola vera protagonista è la perdita che, in un crescendo, marca le vite di tutti, trovando in Leo una rappresentazione paradigmatica, un universale. Da Mommsenstraße (la perdita che avviene quasi prima del ricordo di sé), attraverso il lutto che segnerà il modo di tutte le successive perdite.

E la fine si collega al principio, che nel corso del libro un po’ si dimentica: l’autrice non dimentica, mantiene un forte, incredibile, controllo su tutta la struttura della storia, sull’architettura del racconto come sulla polifonia dei personaggi e dei temi.

Ci sono i personaggi principali, c’è lo sviluppo di una trama, c’è una conclusione. La parte centrale della storia sfiora la struttura del noir, regala una lettura avvincente, che non si fa lasciare.

Ci sono i quadri, le composizioni di Bill, narrazioni complesse in cui si sente, talora, una sorta di ridondanza che tuttavia nasconde indizi, altri livelli di significato, indica percorsi.

Ci sono gli studi e gli scritti di Violet, che indaga le storie delle isteriche francesi di fine ‘800, che indaga le storie di vita delle anoressiche, da cartelle cliniche, tramite interviste, dagli studi sulle grandi mistiche, e costruisce e scrive sulle vite di ragazze che “si ribellano trincerandosi in se stesse. Chiudono tutte le aperture, in modo che nulla e nessuno possa entrare in loro”; e riflette sul fatto che “mescolarsi è inevitabile. Il mondo passa dentro di noi: cibo, libri, immagini, persone (…)”.

C’è “il gioco degli oggetti mobili di Leo. Cose, memorie, oggettini ricordo, una foto, da conservare dentro una apposita scatola e, al bisogno, spostare, collegare, avvicinare, distanziare. “Dispongo gli oggetti in modo diverso. Talismani, icone, incantesimi: sono i miei fragili scudi di significato. Le mosse del gioco devono essere razionali. Mi sforzo di essere coerente in ogni raggruppamento, ma in fondo il gioco è magia. Sono il negromante…

Il romanzo è un puzzle di temi. E di storie. Che costruiscono un’unità? Si e no, come la vita, peraltro, forse, nel senso che, se si prova a prenderne delle aree – della vita, intendo – e assemblarle in un tutto coerente, si scopre che non è possibile, che quel tutto è frantumato, è il territorio in cui ognuno di noi sente di non sapere bene chi è e di non riuscire a farlo sapere. E’ quel territorio in cui moriamo nella misura in cui muore l’esser veduti da altri. Il punto in cui ognuno di noi non c’è.

E Leo dirà al figlio bambino, che faticosamente cercava di esprimere una propria sensazione, una difficoltà a confrontare il proprio mondo con quello degli altri: “So esattamente cosa vuoi dire, Matt. Ci ho pensato molto anch’io. Il punto in cui mi trovo non è nel mio campo visivo. E’ così per tutti. Non ci vediamo nell’immagine, no? E’ una specie di buco”.

E’ un libro doloroso. Contiene pagine di una forza di cui non si può parlare, di cui l’autrice dirà, in un’intervista “Ero come in trance. Ho riscritto quattro volte il libro ma su quelle pagine non sono mai ritornata. E non voglio che vengano mai lette in pubblico”.

Gli si possono ascrivere significative critiche: troppo, troppi temi – ma forse non è così; una certa discontinuità nella cifra della scrittura che, tuttavia, coinvolge sempre e tiene senza cadute. Che lascia un dolore accolto, quello della vita.