Maurizio Bettini, “Elogio del politeismo. Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche”, Il Mulino 2014
Questo libro parte da un interrogativo di grande interesse che tuttavia, di primo acchito, lascia stupiti e incerti. Provo a formularlo: “Quale ruolo svolge, oggi, nel nostro mondo, la religione degli antichi?”
Strana domanda, non c’è dubbio. Eppure, si rivelerà non solo legittima ma anche capace di svelare aspetti importanti del nostro oggi. Bettini pone il tema compiendo un’operazione con la quale ci precipita dentro la domanda, avendone presentato l’origine in modo lineare, chiaro, tale da non potervi opporre alcuna resistenza.
Dice Bettini che “la cultura classica (…) costituisce ancora una fonte di ispirazione, una fonte viva, per la produzione culturale contemporanea”, per cui “la filosofia, la politica, la letteratura, l’arte, il teatro degli antichi, ossia la grande maggioranza delle manifestazioni in cui la loro produzione culturale si è articolata, (…) sono ancora chiamati a interagire con la cultura contemporanea”. Ed ecco aperta la strada alla domanda: “E la religione? Possiamo dire che anche la religione antica abbia oggi la stessa capacità e svolga lo stesso ruolo?”
Certo, ammette l’autore, saremmo tentati di non porre la religione tra le produzioni della cultura. Poi fissa il punto: “La religione dà sempre l’impressione di essere ‘un’altra cosa’. In realtà dovremmo sapere che non è così”. Se lo fosse, “le sue pratiche e le sue produzioni non muterebbero tanto radicalmente da un’epoca a un’altra, da un continente all’altro o da un paese all’altro.” Dunque: “Affermare che la religione dei Greci e dei Romani è superata corrisponde né più né meno a dichiarare che la poesia di Omero o quella di Virgilio sono superate”.
Da qui, poste le premesse, il discorso può partire. E sarà un discorso che, mentre ristruttura le nostre conoscenze, ci apre gli occhi sui vincoli culturali che impediscono, nel nostro oggi, risposte utili ai conflitti religiosi in atto.
Oggi, per noi, gli antichi dei, si presentano nelle vesti di personaggi mitologici; i poemi, la poesia, la stuatuaria che li rappresentano, non sono più veduti come rappresentanti la divinità, sono <solo> opere d’arte. Pure, dovremmo sapere che non era così, ma traduciamo, tradiamo, quelle culture attraverso una forma di diminuzione della religiosità che esprimevano, riducendo a ‘mitologia’ il sentimento e le pratiche di quelle religioni, le liturgie proprie di quelle culture, di quei mondi. Ancora, assimilando il tutto dentro il concetto di ‘riti pagani’, riduciamo gli antichi dei a ‘falsi dei’, e le credenze che li riguardano, la ‘fede’ che gli antichi riponevano in loro a ‘superstizione’.
A partire da duemila anni fa si è verificata una crasi tra due mondi, tra due modelli culturali che, per altri versi, noi invece percepiamo come coerenti. Ci percepiamo infatti eredi di quella cultura antica, dei suoi valori, della sua etica, per non dire dei suoi sistemi di governo. La ‘democrazia’ che viviamo come caratteristica fondante della nostra cultura è nata allora.
E dunque, da dove la crasi? Si apre qui il discorso sulle ‘religioni del libro’ a partire dalla casa madre, l’ebraismo che, in totale dissonanza con tutto il mondo e le civiltà che circondavano il popolo ebraico, si caratterizzava per un monoteismo che non solo escludeva la possibilità di adorare forme plurime del divino ma imponeva la distruzione di tali forme e delle forme religiose degli altri popoli.
“Osserva dunque ciò che io oggi ti comando (…) Guardati bene dal fare alleanza con gli abitanti della terra nella quale stai per entrare, perché ciò non diventi una trappola in mezzo a te. Anzi distruggerete i loro altari, farete a pezzi le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché il Signore si chiama Geloso; egli è un Dio geloso” (Esodo).
Il libro descrive, e pone a confronto, i due universi simbolici propri della cultura politeista e della cultura monoteista. Li pone a confronto, non esprimendo giudizi di valore bensì cercando di mettere a fuoco i diversi modi dell’incontro con l’altro che civiltà diverse esprimono. Descrive inoltre i modi del permanere, nella nostra cultura, di forme di politeismo (dopotutto, il nostro dio è descritto come trino) che si esprimono soprattutto nel culto dei santi. Descrive, e questo è un nodo centrale, l’assenza del concetto stesso di <guerra di religione> nel mondo antico, così come nel mondo del politeismo che caratterizza anche oggi molte culture e molte civiltà. Descrive l’implicazione ‘necessaria’ di guerra religiosa che il monoteismo porta con sé, dove “Le religioni monoteistiche hanno a tal punto identificato la nozione stessa di ‘divinità’ con quella di ‘unicità’ che (…) pensare dio significa inevitabilmente pensarlo come un’entità che esclude l’esistenza di un’altra o di altre divinità. Se è <dio> vuol dire che è <il solo> dio” e che <deve> essere imposto agli altri.
L’autore si sofferma, così, sul concetto di ‘tolleranza’ e sui vari significati che si rintracciano nella storia della parola. Ma non può che concludere per l’ambiguità del concetto, utilizzato dal fronte monoteista in una forma quantomeno paternalistica e, in ogni momento, passibile di trasformarsi in intolleranza, che si esprimerà in modo esplicitamente violento ma anche nei modi subdoli correlati all’esercizio del potere che le gerarchie religiose esercitano, anche sul piano politico, sui propri adepti.
Il concetto di ‘tolleranza’ appartiene comunque, nel suo portato positivo, alla storia del monoteismo; è il concetto che ha consentito di porre la parola fine alle guerre di religione in Europa. Ma la malattia non può essere estirpata.
Sul tema, invece, dell’assenza di guerre religiose che caratterizzava la civiltà romana, Bettini riferisce anche su di un interessante rito che veniva posto in atto nel corso di eventi bellici. Si tratta della “evocatio”, attraverso cui, quando si apprestava a conquistare una città, il comandante romano ne “chiamava fuori” gli dei protettori, assicurando loro che, in campo romano, sarebbero stati ancor più onorati. In questo modo, attraverso il riconoscimento delle divinità altrui, era possibile togliere ai nemici la protezione dei propri dei e assicurarla a sé. Al fondo di questa prassi, tuttavia, vi era anche un profondo rispetto per la religiosità. La ‘evocatio’ veniva compiuta poiché sarebbe stato empio far prigionieri degli dei, coinvolgerli nella caduta della città. Tant’è che, dopo aver conquistato una città, per esser certi di non trascurare qualche divinità ignota, i romani utilizzavano il termine “novensiles” per indicare tutte le divinità della città, di qualsivoglia ordine e grado, e testimoniare loro rispetto, non solo per averne protezione ma anche per esser certi che una divinità, venendo dimenticata, non sparisse.
Perché, ecco il punto, ai nostri antichi era chiara la natura di dispositivo culturale degli dei, che in questo trovavano la propria forza; era chiaro come le divinità costituissero linguaggi che, come tali, necessitano di arricchirsi, ricevere e dare prestiti, per essere sempre adeguati ai bisogni dei mondi in divenire che devono interpretare e proteggere.
Sta qui il grande limite dei monoteismi, nel fatto che si costituiscono come ‘linguaggi bloccati‘ per il fatto che, essendo ‘religioni del libro’ si basano su precetti immutabili che, pur soggetti a interpretazioni, al fondo non possono crescere, svilupparsi, modificarsi.
Roma, dava cittadinanza ai popoli conquistati e dava cittadinanza ai loro dei attraverso precisi dispositivi che sancivano l’appartenenza e la sacralità della stessa.
Facendo ciò rendeva esplicito, insieme alla sacralità dell’atto, il fatto che si trattava di un atto umano. Dove, nelle religioni monoteiste – ebraismo, cristianesimo, Islam – per mezzo di un testo scritto è dio che parla agli uomini di sé, e dunque mantiene il controllo e l’autorità sul proprio testo, nel mondo politeista sono gli uomini, dice Bettini, che parlano di dio, e dunque, quali autori del testo, possono integrarlo, modificarlo, interpretarlo, riscriverlo, fornendo a tale testo il carattere della sacralità.
La rigidità del testo scritto, la titolarità di tale testo al di fuori delle mani dell’uomo costituisce il grande vincolo del monoteismo, dispositivo culturale che si è autoimposto una rigidità che non ne consente o ne rende difficile lo sviluppo.
Ma, dice Bettini avviandosi a chiudere il suo discorso con una nuova riflessione di grande portata, la nostra civiltà nata sulla scrittura, e su di una scrittura divina che ne ha fissato i dispositivi culturali fondamentali, “presenta numerosi segni del fatto che la scrittura, come mezzo di comunicazione, sta perdendo importanza (…). “Non ci pare un caso che oggi l’impiego più frequente del sostantivo <book> sia nell’espressione <facebook>, un <libro di facce> non di caratteri dell’alfabeto (…)”
Bettini apre uno scenario che non intende essere distopico, né, peraltro, predittivo, ma unicamente indicativo dei segni di un cambiamento in atto per il quale, a suo parere, non stiamo assistendo alla <fine del libro> ma alla <fine della figura dell’autore>, e in conseguenza del <testo> con tutta la sua autorevolezza.
“Non il libro tramonta ma il testo, inteso come un’ampia architettura di enunciati con la quale il lettore intratteneva una comunicazione capace di durare a lungo; il tempo necessario perché la muta voce di un autore prendesse spazio nella sua mente e nella sua memoria.”
Mentre si augura che “il tramonto non sia troppo brusco”, e compie una interessante disanima del tema che io posso qui solo tratteggiare, Bettini vede il riflesso di tutto questo in campo religioso dove, con l’indebolirsi dell’importanza di “ciò che è scritto”, e con l’indebolirsi della figura dell’Autore, “sarebbe meno difficile che nuovi modelli religiosi potessero scivolare fra le maglie di una <scrittura> sempre più diluita nella forma di immagini e voci.”
Il libro contiene molto altro, molto di più. Eppure, non è un libro voluminoso ed è un testo di piacevole e scorrevole lettura. Da leggere e ripensare.