Michele Mari, “Verderame”, Einaudi 2007
“Dimidiata da un colpo preciso di vanga, la lumaca si contorceva ancora un attimo: poi stava.”
Questo romanzo inchioda, da subito, in una emozione mista di interesse e di, solo iniziale, dubbio. Il bellissimo incipit è espresso con un linguaggio lievemente respingente, arcaico – perplessità – poesia? Si prosegue la lettura; certo, l’impressione data da poche parole è un lampo che cattura e, nel frattempo, lo sguardo sul testo è andato oltre.
“Tutto il vischioso lucore le rimaneva dietro, perché la scissione presentava una superficie asciutta e compatta che il colore viola-marrone assimilava al taglio di una bresaola in miniatura. Dunque, della sua bavosa vergogna l’animale si doveva liberare in continuazione per rimanere puro nell’intimo suo, e a questa nobile pena era premio la metamorfosi dell’immonda deiezione in splendida scaglia iridescente”.
. Lo schifo! La bresaola mi era sempre piaciuta! Pure: una lumaca che necessita di “rimanere pura nell’intimo suo”?
L’occhio rallenta, gusta la scrittura e insieme scorre rapido, comunque incuriosito perché l’immagine, non c’è che dire, è pregnante. Cerca di catturare velocemente la cosa e incoccia un “Lümagh schifus vacaboia!”
Non si poteva dire meglio! Il lettore è catturato, insieme, dal linguaggio e dalla curiosità. Chi impreca è Felice, e mai nome fu tanto erroneo e tanto indovinato a modo suo: “l’è minga difficil dà i nomm, el difficil l’è faj diventà vera“. Felice, giardiniere sessantenne, è il protagonista di questa storia, che Michele narra in prima persona ricordando un’estate dei suoi quattordici anni, nella villa di campagna dei nonni, in un paesino del varesotto. Era l’anno 1969.
“Michelin”, è sempre appresso all’uomo, affascinato dalla sua enorme bruttezza. Felice è certamente, nella fantasia del ragazzo, un mostro: lo denunciano il suo aspetto e le attività che compie, l’impegno che mette nell’uccidere e scuoiare conigli, il suo trattare a mani nude il verderame, diluendolo, rimestandolo, per poi diffonderlo sulle piante dell’orto.
La fantasia di Michele, nel vederlo, sulla spalla la bombola del verderame, nelle mani la pompa che esplode il veleno, assimila la sua figura ai palombari di “Ventimila leghe sotto i mari”. Michele è un grande lettore; oltre a vagare i campi al seguito di Felice la sua unica compagnia, nella casa dei nonni, sono i libri. Così, in un misto di richiami letterari, da Verne a Stevenson a Melville, cresce l’affetto per quell’uomo, per il mostro.
La storia inizia da quella specie di lumache che Felice chiama ‘lumache francesi’ e che ammazza a colpi di vanga, con ferocia; e dall’aiuto che l’uomo chiederà al ragazzo, dal silenzio complice tra i due su un problema che non dovrà essere risaputo dai nonni di Michele.
“El me nomm sacrabisssa, come diaul me ciami, mi?”
Felice sta perdendo la memoria, non ricorda i nomi delle cose. Michele si impegna, lo affianca inventando stratagemmi per aiutarlo a ricordare, perché “si è mai dato qualcosa di più irresistibile di un mostro che chiede aiuto?” Da qui, dalle parole, soprattutto da quelle dimenticate, inizia una ricostruzione della vita del vecchio giardiniere, commista a indizi di fatti ben strani, dall’odio ingiustificato di Felice per i francesi alla storia della famiglia di esuli russi, i Kropoff, che era stata proprietaria della villa prima dei nonni di Michele.
Felice non ha un passato, una famiglia. Non ha un cognome. Michele si impegna nella ricerca della storia di vita dell’uomo ma soprattutto di una storia che giustifichi le strane ossessioni che lo angosciano. In questa indagine, Michele si scontrerà con terribili segreti nascosti nella villa e nel terreno circostante; emergeranno vecchie storie di guerra, e di cadaveri sepolti nel giardino. Non mancherà la presenza del “Gran Coniglio” e enormi tane di lumache: carnivore e, soprattutto, francesi.
Non vi dico altro. Tutto da leggere godendo una scrittura colta, ricercata, segnata da una leggerezza lievemente ironica che, nel contrasto con la bella voce dialettale di Felice, stempera la durezza della storia, in una fortunata combinazione che ripaga ampiamente la fatica di lettura che il dialetto può richiedere.
Ma c’è un altro elemento che rende davvero prezioso questo romanzo anche se, forse, lo rende tale in modo speciale per chi ha una certa età e, in conseguenza, ricorda quegli anni e i personaggi che li popolavano. Ma non solo. Penso che sia solo diversamente bello da leggere, catturandone il tempo, l’’aspetto autobiografico che ingloba una generazione e un mondo.
Sullo sfondo, ci sono infatti i nonni senza volto di Michele, una vecchio e colto medico e la moglie, che trascorrono la loro giornata ignorando il nipote, totalmente presi dagli ‘sceneggiati’ che, in quegli anni, la TV di Stato offriva. Per la memoria: il secondo canale TV aveva iniziato le trasmissioni nel 1961 e solo nel 1979 avrebbe iniziato a trasmettere il terzo canale, l’attuale Rai 3. Non esisteva la diretta, e gli sceneggiati mettevano in onda opere letterarie più o meno popolari cui prestavano volti e voci i migliori attori di prosa del tempo.
Michele controlla: può dedicarsi all’esplorazione della cantina, della soffitta, del terreno intorno alla casa: i nonni stanno vedendo lo sceneggiato. Ed elenca: “Giulio Bosetti e Paola Pitagora, Alberto Lionello e Umberto Orsini, Ilaria Occhini e Adalberto Maria Merli, Ubaldo Lay e Massimo Serato”. Non occorre altro. Agli occhi del lettore rivive un tempo, rivivono i volti, le emozioni, i miti e i riti di un’epoca in cui si poteva ignorare il nuovo che di lì a poco avrebbe fatto cessare un mondo.
Risorgono, vien da dire nella loro stazza, Tino Buzzelli e Salvo Randone (beh, più il primo ma anche Randone si difendeva bene), insieme a Nikita Kruscev, John Kennedy e papa Roncalli, alle figurine della Liebig e alla figura di Alan Ladd nelle vesti di Shane, l’eroe di “Il cavaliere della valle solitaria”, grande film western del 1953.
Tutta la storia, Felice e il Michelin, si muovono dentro un quadro la cui profondità, la cui solidità, è inverata dal mondo che i due nonni concretano e che la voce narrante restituisce attraverso brevi appunti solo apparentemente di sfondo. E racconta, senza dirlo, la libertà di pensiero e di azione che, in quel mondo, un ragazzo poteva avere.
Una favola nera. E una storia di affetto, nella componente autobiografica che recupera nella fantasia, e regala al lettore, la storia di un mondo e di un tempo.
Un limite. Lo scioglimento dell’enigma restituisce – non poteva, credo, essere diversamente – la realtà di una spiegazione, un dar ragione di quelli che apparivano fatti quasi magici, mostruosi. Funziona poco. Non dà ragione di molti aspetti. Quasi che l’autore si fosse lasciato prendere la mano dall’invenzione e poi, dovendo chiudere, non abbia saputo decidersi tra il rimanere nella favola o passare, vogliamo dire all’età adulta? Forse poteva non farlo. Forse non lo ha fatto.
Ma la lettura, un grande piacere.