Avevo dei propositi, dei progetti, su come avrei proseguito queste pagine dopo la rilettura di “La mia Africa”, di Karen Blixen.

I propositi ci sono ancora, ma io, nel frattempo, sono stata molto colpita da un fatto di cronaca, e mi va di parlarne perché, per me, ciò ha avuto a che fare con il meccanismo che mi porta a transitare da un libro all’altro, e a spaziare, tramite il libro, da un tempo all’altro. Vi ha avuto a che fare per il collegamento che ogni libro potenzialmente crea con ciò che accade, ogni giorno, nel nostro mondo; siano fatti privati, fatti della nostra vita quotidiana, siano fatti della società in cui viviamo; e perché ognuno di questi fatti ha a che fare con l’esercizio della cittadinanza che ogni persona agisce ogni qualvolta si interessa ai fatti altrui, da ciò che avviene nel quartiere in cui abita a ciò che i giornali riportano dal livello sociale più ampio.
Questo comportamento naturalmente politico è ciò che fa di ognuno di noi l’animale sociale che siamo, che non può vivere senza interessarsi di ciò che avviene intorno a sé; non può vivere senza, come si dice, farsi i fatti altrui, mentre gli altri si fanno i suoi. Triste sorte quella di colui che vivesse ignorando il prossimo suo e dal suo prossimo venisse ignorato; vero, talvolta ci parrebbe qualcosa di desiderabile ma, a ben guardare, la cosa non solo è impossibile ma soprattutto non è auspicabile. Possiamo convenirne senza bisogno di esempi.
Cosa c’entra tutto questo con la lettura, con i libri? C’entra, eccome. Perché leggere non equivale a ritirarsi dalla partecipazione al mondo. Quando leggiamo un romanzo, ma non solo, facciamo esattamente questo: ci occupiamo dei fatti degli altri. E, perché le storie che leggiamo ci interessino, è necessario che, anche di fronte al più fantasioso libro di avventure, possiamo trovare qualcosa che richiama la nostra esperienza del mondo, con gli altri.
Il libro ci istruirà, senza parere, su come è bene comportarsi nel farci i fatti altrui. Ci mostrerà il mondo, le sue relazioni e cosa accade se…
Ovvio no? I libri sono il principale fattore, dopo la famiglia, di trasmissione di cultura, vale a dire di valori, credenze, riti, miti, regole del vivere sociale, di cui la nostra società si è dotata per poter funzionare. Perché, va detto, se interessarci al nostro prossimo è dovuto, è anche vero che c’è modo e modo di farlo, e il modo non è privo di conseguenze, utili o dannose. Tutti noi, chi più chi meno abbiamo dovuto imparare le regole per farlo, e dunque discriminiamo tra chi si fa i fatti altrui nel modo corretto e chi è intrusivo, irrispettoso, pettegolo e quant’altro. Soprattutto quant’altro.
Un lunga divagazione; ora arrivo al punto: avevo dei propositi. Se non che, mentre mi occupavo dei fatti degli altri – vale a dire mentre stavo leggendo il giornale e smanettando sui social media – mi sono imbattuta in una particolare notizia di cronaca.
Riassumo: Giovanni Scattone, il professore accusato di aver causato la morte della studentessa Marta Russo, era il 1997, in seguito condannato per omicidio colposo a cinque anni e quattro mesi di reclusione, era il 2003, avendo scontato la pena, lavora come insegnante, è la sua professione, e ora ha ottenuto, secondo le norme, la cattedra, non ho presente se di filosofia o di psicologia, in un istituto superiore. Si apprestava a stabilizzare la propria vita quando i giornali si sono scatenati riportando il parere (del tutto giustamente di parte) della madre di Marta che ritiene inammissibile che l’omicida di sua figlia possa assumere un ruolo di ‘educatore’. Ne è nata una bagarre sui social media e Giovanni Scattone ha scelto di rinunciare alla cattedra, affermando che gli era stata tolta la serenità necessaria a svolgere bene il ruolo di insegnante.
E io mi sono trovata Nathaniel Hawthorne in mano: “La lettera scarlatta”. E a chiedermi cosa ne potrà essere del nostro stato di diritto se, come pare, la giustizia viene esercitata, e le pene comminate, di fatto, sui giornali e dalla pubblica opinione, e non nei tribunali. Tra l’altro, da una parte, assolutamente minoritaria, in quanto espressa, della pubblica opinione. Peggio ancora, dal potere di un giornale che, scegliendo di amplificare questa o quella voce, fa valere la propria opinione caricata di un peso specifico elevatissimo. Chi ha commesso un reato, ha subito una condanna e scontato la pena, dovrebbe aver il diritto – e il dovere – di rientrare a pieno titolo nella società come cittadino. Talora non è il caso? Ci può stare, nel qual caso il tribunale provvederà a porre limitazioni. Cosa che in questo caso non è avvenuta. Giusto? Sbagliato? Sentenza. E, nel frattempo, nei giornali compaiono, infatti, voci in questo senso.
Ma le cose non sono così semplici. Non lo sono mai. Ed ecco la digressione: non esiste società in cui non ci si interessi a ciò che avviene nel mondo comune; e non esiste società in cui si possa vivere ignorando il sentire comune.
Ed ecco ‘La lettera scarlatta”, che ora sto rileggendo, con molto piacere perché è un bellissimo romanzo. Nel frattempo, a lato della lettura, mi sto perdendo sulle tracce di Hawthorne, non solo di questo suo libro. E sono incerta tra la voglia di proporre questo libro quale prossima recensione e la voglia di parlarne, ora e qui, a partire da un riassunto veloce che tuttavia impoverirebbe gravemente un testo che non presenta una storia ‘semplice’ né, come spesso, citandolo, sembra si creda, dove l’opinione dell’autore sia scontata, un’opinione di denuncia. Anche. Forse, Certo. Non solo.

In soldoni, la storia è nota, credo. Avviene in quel di Salem, una piccola città sulla baia del Massachusetts, nota per essere stata, oltre a città natale di Nathaniel Hawthorne, sede di un processo alle streghe, nel 1692, unico nella storia degli Stati Uniti, che si risolse in un massacro.
Il libro parla della condanna (di invenzione, è un romanzo) – siamo nel XVII secolo – che nella città di Salem viene inflitta ad una adultera, che dovrà portare una lettera “A” scarlatta sulle proprie vesti, per tutta la vita, a definirla per sempre come adultera. Ma poi, la trama è ricca di colpi di scena, è molto articolata. Pubblicato nel 1850, è un drammone avvincente, secondo i migliori canoni del romanzo d’epoca (potremmo persino dire del ‘romanzo’ tout court).
Bene. Ovviamente non commento invece oltre il fatto di cronaca attuale riportato, non è questa la sede. Ma credo sia importante porre mente allo stretto legame che esiste tra la lettura e la possibilità di essere buoni cittadini. Non occorre riflettere molto: per quanti insegnamenti la famiglia e la scuola possano fornirci, per quanto si possa apprendere dal partecipare alla vita sociale, sulle regole della cittadinanza e sui modi corretti dell’interessarsi alla vita delle persone che ci circondano e del paese in cui viviamo, potremmo contare su un bagaglio di esperienza e di conoscenza ben limitato, in particolare per quello che è richiesto dal vivere nel mondo attuale.
I libri ci possono arricchire dell’esperienza di secoli. Sono un modo importante per provare ad essere cittadini migliori.
Racconterò i propositi che ha accantonato in altro momento. E credo che “La lettera scarlatta” sarà la prossima recensione.