Stigma: l’affermazione di un’identità

La lettera scarlattaNathaniel Hawthorne, “La lettera scarlatta”, Einaudi 2008

Rileggere questo romanzo è stato un grande piacere; ed è stata la lettura di un libro totalmente nuovo, nel corso della quale il fatto di conoscerne la storia è risultato ininfluente. Ero alle prese con un testo che, per me, aveva mutato di significato. I fatti erano gli stessi, la lettura di quei fatti non lo era. Molto interessante.

Ho potuto gustare tutta la ricchezza di questo romanzo, la ricchezza di letture possibili, ma soprattutto la ricchezza di tonalità del linguaggio di Hawthorne che conduce a un grande coinvolgimento, nella pluralità delle storie che compongono il romanzo, dato dalla pacatezza con la quale il tutto è narrato, dal gioco, che ammicca al lettore, dell’assenza (impossibile) di un punto di vista (che ovviamente c’è) da parte dell’autore; dalla partecipazione agli avvenimenti, dalle alleanze ai punti di vista dei diversi personaggi che, di volta in volta, vengono proposte al lettore.

Per non parlare della sottile, bonaria ma tutt’altro che leggera, ironia che serpeggia qua e là e che allenta la tensione, sempre elevata, del racconto, dando modo al lettore di fermare il pensiero, di non farsene travolgere; o respingere dalla crudeltà, dalla distorsione di valori, proposti invece nella loro coerenza con un punto di vista sul mondo, dentro un progetto di società che, in quei tempi e in quei territori, costituivano la forma del sogno americano: realizzare una ideale società puritana la cui purezza non era certo ascrivibile ai padri fondatori, portatori di una storia antica e di forti passioni, di colpe e di quant’altro. Gli abitanti erano gente di mare, che tutto aveva visto e affrontato, fino al giorno del ritiro a terra, a coltivare e imporre le virtù bibliche. Né peraltro al territorio, la cui verginità era assumibile solo cancellando una cruenta conquista, costruita sul genocidio.

Siamo di fronte tuttavia, a una società fondata su valori condivisi e dotata di una sua coerenza interna, alla cui protezione tutti partecipano, vittime e carnefici, senza che ombra di crisi sfiori quello che era il sogno di una società a misura della supposta legge divina: a Boston come a Salem che, città di porto, nel contempo commerciava con i nativi indiani, con la Spagna, ovviamente con, al tempo – siamo nella seconda metà del XVII secolo – la madre patria inglese senza che tutto questo incrinasse minimamente il sistema. Ricorda qualcosa?

Il libro si apre con una specie di racconto autobiografico – La Dogana – relativo al breve periodo in cui Hawthorne lavorò per l’appunto alla dogana di Salem.

Il capitolo, un bellissimo racconto a sé, descrive la città oramai in decadenza, i vecchi uffici e il lavoro che vi si svolgeva (o non vi si svolgeva), oltre ai precedenti familiari di Hawthorne, la cui famiglia risiedeva a Salem dai tempi della fondazione della città, “quando la colonia era ancora selvaggia, sparsa per la foresta dove è sorta la città attuale. E quivi tutti i loro discendenti nacquero e morirono, mescolando alla terra la loro sostanza umana; tanto che ormai dev’esserci una certa parentela tra la zolla e questa mia mortale carcassa che la calpesta (…)”.

Ed è questo racconto di apertura che, in nuce, ci dice il pensiero dell’autore sulla storia che narrerà, il giudizio che egli dà di tale società – e della società del proprio tempo, figlia di quel sogno puritano che, ancora oggi, serpeggia nella provincia americana – da discendente di una stirpe che quel sogno, o quell’incubo, aveva costruito, annoverando Hawthorne tra i propri ascendenti un giudice dello storico e famigerato Processo alle streghe di Salem.

Su questa fondamentale parte autobiografica si innesterà il racconto della condanna per adulterio di Esther Prynne, e di ciò che ne seguì: un fatto avvenuto in quel di Salem nei tempi andati, di cui l’autore finge di aver trovato una documentazione tra le vecchie carte conservate negli uffici.

Ma solo in questa prima parte, nel capitolo-racconto “La Dogana”, Hawthorne dichiara apertamente, utilizzando la figura retorica dell’ironia, la propria rottura ideale con quei suoi illustri antenati e con quei pretesi valori.

La storia: il nostro autore, nel corso del suo impiego alla Dogana di Salem (ed è molto bella la descrizione dei nullafacenti impiegati, vecchi e incapaci, determinati a resistere al loro posto) trova vecchie carte che costituiscono il resoconto della storia di Esther Prynne, una donna condannata, per adulterio, avendo partorito una bambina in assenza del marito che non l’aveva ancora raggiunta nel paese di emigrazione. Essendo prevista per l’adulterio la condanna a morte, questa viene commutata nell’obbligo di portare, sulle vesti, per tutta la vita, un riquadro di stoffa scarlatta sul quale doveva essere  da lei stessa ricamata la lettera “A”, a significare “Adultera”.

La condanna è, oltre che accolta dal popolo, e in particolare dalle donne, apparentemente condivisa da Esther stessa che non lascerà la città e trascorrerà la vita crescendo la figlia Perla, bellissima, dal carattere e dal comportamento molto particolari, vivendo del suo mestiere di sarta ricamatrice, nel quale è molto brava e richiesta.

Esther si rifiuterà sempre di confessare l’identità del suo amante, mentre, nel corso della sua esposizione sul palco, quando la pena le viene comminata, arriva, sconosciuto a tutti, suo marito, un uomo anziano che non rivelerà mai la propria identità ma, assumendo le funzioni di medico con il nome di Roger Chillingworth, si darà l’obiettivo di scoprire chi sia stato l’amante della moglie.

Sarà rivelato presto, al lettore, che si tratta del reverendo Dimmesdale, sacerdote considerato un santo dall’intera comunità, il quale non parlerà, subendo sulla propria salute la pena della propria coscienza colpevole.

Le storie dei personaggi si intrecciano, le ragioni si incrociano. E Hawthorne racconta, spostando dall’uno all’altro dei comprimari il fuoco della narrazione, oltre che sulla società, sui suoi amministratori, sulle regole duramente osservate in un mondo dove la vita è, doverosamente, sofferenza e pena in vista dell’accesso al regno dei cieli. Una società dove non si ride, non si gioca, non si danza, e si guardano, con l’arrivo delle navi, le vesti e i piumaggi multicolori degli spagnoli, le acconciature dei capi indiani, senza che niente di tutto questo intacchi il grigio della vita e delle vesti dei bravi cittadini.

E dove risplende, sulle vesti di Esther Prynne, su fondo scarlatto, il ricamo eseguito con alta maestria e filo dorato della lettera che la dichiara colpevole e che lei manterrà anche quando la città sarebbe disposta a far cessare la pena in conseguenza della sua condotta esemplare.

Tutto il romanzo è un abile gioco al cambio di segno delle storie individuali, e certo, come in ogni trama che si rispetti, vi saranno vincitori e vinti. Vi sarà, soprattutto, magistralmente descritta la capacità di accogliere la propria pena, la propria storia e, a partire da questo come punto di forza, costruire la propria liberazione. Il libro non tratta del ruolo della donna nella società del tempo, se non in quanto accolto, condiviso e sostenuto dalle donne stesse, ma mostra come ogni pensiero contenga in nuce la propria critica e la propria evoluzione.

Alla fine – ma non narrerò gli eventi, per chi non conoscesse questo romanzo è una storia avvincente da non rovinare svelandone la trama molto articolata – Esther se ne andrà, con la sua bambina; salvo tornare anni dopo, ad abitare la sua vecchia casa in riva al mare, riprendendo a vestire la lettera scarlatta che “cessò di essere il simbolo del castigo e del disprezzo per trasformarsi in segno di bontà e di rispetto. La gente ricorreva a lei per consiglio, soprattutto le donne

Esther le consolava come meglio poteva ed era lei a trasfondere in loro la fiducia in un tempo migliore, nel quale, se il mondo l’avesse meritato, i rapporti tra uomo e donna sarebbero stati retti da leggi più propizie alla reciproca felicità”.

Mi raccomando, buona lettura.