Romanzo rosa (ma non solo): seconda puntata

Jane_austen Del Stephanos
Jane_austen Del Stephanos
Del Stephanos, Jane Austen

La lettura è tante cose. La lettura, nei suoi tanti significati, è anche, ed è sempre, un piacere nel quale occupare un tempo che scegliamo di liberare per ritemprare noi stessi, regalarci qualche ora di relax.

Ci sono libri per tutte le occorrenze. È un fatto che si scelgono libri di categorie diverse, dal giallo al romanzo storico al saggio a carattere scientifico al manuale che ci aiuta ad affrontare un compito. C’è chi si definisce, in base alle proprie preferenze, lettore unicamente di una certa area (i polizieschi piuttosto che i romanzi d’amore) ma, solitamente, chi ama leggere spazia tra i generi.

È dunque comune il caso che, mentre si sta leggendo un libro di un certo peso, si inserisca nel nostro tempo qualche altra lettura: il libro che si porterà con sé in sala d’attesa dal dentista non sarà il tomo di filosofia cui verrà dedicato un tempo preciso della giornata, ragionevolmente libero da distrazioni o interruzioni; altro sarà il libro da leggere a letto, sulle cui pagine addormentarsi dovendo poi, la sera seguente, rileggere daccapo le stesse pagine, totalmente cancellate dalla memoria.

In questa diversità, non è né possibile né corretto costruire una graduatoria, una scala di valore, del libro. Voglio dire: quando, ad esempio, su di una rivista o in un sito leggiamo un articolo che fornisce la graduatoria dei libri più letti della settimana, del mese, dell’anno, non veniamo informati sul valore letterario di tali libri; il libro più acquistato, non solo non sarà il libro di maggior valore pubblicato nel periodo ma neppure necessariamente il più letto.

Non é corretto, dicevo, costruire una scala di valore del libro a partire dal genere. È altrettanto scorretto, credo, liquidare un intero genere, e di conseguenza i suoi lettori, squalificandone il valore letterario; mentre credo sia di qualche importanza che, per ogni genere letterario, ai lettori vengano offerti libri degni di questo nome; che la qualità venga assicurata come attributo necessario del prodotto ‘libro’.

E dunque. La tirata serve a presentare alcune letture che, intermezzo tra libri di maggior interesse, riempitivi per momenti di riposo e passatempo, hanno stimolato la mia attenzione per motivi diversi, inducendomi a leggerne alcuni in sequenza per proporre, qui, non specifiche recensioni, ma alcune riflessioni sul genere ‘romanzo rosa’ (ma non solo) che mi piacerebbe condividere.

Ne ho già parlato in una precedente chiacchierata: sono libri che solitamente vengono categorizzati come “rosa”, o “storie d’amore a lieto fine obbligato”. Nota a margine: avete notato che, se la storia è a lieto fine, il libro viene sempre in qualche modo più o meno svalutato? Pare proprio che per avere il grande romanzo sia necessaria la tragedia. Imprescindibile la non sopravvivenza del protagonista. Per converso, sembra che la miserevole fine dello stesso assegni un valore aggiunto al libro.

Ho dunque letto alcuni romanzi che, nella scala di valore in uso, non vengono sicuramente considerati letteratura, e tantomeno vengono recensiti sui siti e sulle riviste che contano o presentati nel salotto televisivo giusto (che porta al risultato di vendita del libro ma non necessariamente, potrei sbagliarmi ma non credo, alla lettura dello stesso). Il che non esclude che siano opere di buon artigianato, da non disprezzare, anzi. Non si vive di sola grande letteratura.

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Botero, Donna che legge

Ultimo nell’ordine di lettura il romanzo di Liala fortunosamente trovato, “L’arco nel cielo”, Fabbri Editori 2002. Ne avevo già parlato qui. Un paio d’ore di lettura veloce.

Ed è stata, rispetto alle attese, una sorpresa positiva. Storiella oggi certamente non appetibile, un’immagine di donna che spero non verrebbe oggi sottoscritta da nessuno e tuttavia, nel contesto, comprensibile – un tempo, una cultura, tendenti ad orientare le aspirazioni femminili secondo certi obiettivi; ma una scrittura corretta e scorrevole.

A seguire: Lulù Librandi, “C’era una volta”, Fazi Editore (Kindle). Opera prima. Che dire, è la storia, poco originale, di una giovane donna, avvocata d’affari in un grande studio legale, che si sveglia in un letto d’ospedale in preda ad amnesia e deve ricostruire la propria storia e la propria vita. Il tutto é narrato con voce ironica, in prima persona, dalla protagonista. Ora, il libro, in termini di lettura di evasione, si lascia leggere. Il problema sta proprio nel leggero, e piacevole, tono ironico con cui la protagonista parla e pensa. Sfido chiunque si trovi in un letto d’ospedale (vabbè, di clinica di lusso) senza sapere più chi è e incapace di riconoscere nessuno, ad avere quel tono scanzonato. Il lieto fine equivale sempre all’amore ma, in questo caso, anche alla carriera, e ci sta. Se non è letteratura, è un’onesta prova artigianale. Non è poco.

Passiamo a Kerstin Gier, con il suo “In verità è meglio mentire”, Corbaccio (Kindle). Scrittrice tedesca, prolifica, scrive narrativa rosa anche con altri pseudonimi. Qui c’è sicuramente più scuola, i personaggi sono ben delineati, di un certo interesse. Anche in questo caso, nell’inverosimiglianza della storia, due ore di lettura rilassante e che non affatica. Si conferma il genere, senza disonore.

Ora arrivano i problemi. Anna Premoli, “Come inciampare nel principe azzurro”, Newton Compton. Scrive di lei Wikipedia:Un’autrice da 250.000 copie. Vincitrice del Premio Bancarella 2013. Autrice del bestseller “Ti prego lasciati odiare”. Dovremmo trovarci nel campo della letteratura. Nonostante il titolo.

Scelgo il libro, a seguito delle sopraddette informazioni. Non ero alla ricerca, in questo caso, di ‘romanzi rosa’, spinta da curiosità per il genere; cercavo solo un libro da leggere, per diporto. Ci poteva stare. Scelgo il libro (Kindle) pensando di me stessa che dovevo fare attenzione a non escludere un’autrice per pregiudizi relativi al genere letterario. Il titolo sarà ironico, ho pensato, visto l’editore e, soprattutto, il Premio Bancarella.

Leggo, e non capisco. Mi rifiuto di capire. Arrivo alla fine (due ore di lettura, niente di che) per pura determinazione a rendermi conto.

Si tratta di una storiella insipida, priva di qualsivoglia spessore, con personaggi, specialmente quello della protagonista, privi di qualsiasi caratterizzazione che non siano improbabili stereotipi. A un terzo del tutto la storia é di fatto già conclusa, l’esito ovvio più che raggiunto mentre il libro si trascina lungo pagine e pagine in cui si pensa solo e dai! Concludi! Incredibile e inaccettabile. Lo dico per il fatto che editore e, soprattutto, riconoscimento formale, squalificano la professionalità dell’editoria e della critica, rendendo sempre più difficile, nella marea di titoli che escono ogni anno, assicurare al pubblico che legge, o che potrebbe farlo, l’accesso ad un prodotto di qualità certificata dalla competenza. Dimenticavo: ci è scappato pure il film.

Un altro caso? Va bene, siamo al di fuori del ‘romanzo rosa’ ma, proprio per questo, il patto con il lettore era diverso e il caso è forse peggiore.

Brian Morton, “Florence Gordon“, Sonzogno. Recensioni importanti più che positive, in particolare, per me, su Internazionale, rivista che apprezzo. Scelgo il libro senza grandi esitazioni, nonostante gli stereotipi abbondino: Manhattan, storica femminista, scontrosa e di cattivo carattere; tutto già dato.

Anche in questo caso, una storiella che più piatta non si può. Con morte finale della protagonista che, come detto, non basta a certificare la qualità del prodotto.

Dunque: in Italia si vendono pochi libri, mentre se ne stampano sicuramente troppi per il nostro mercato. Non sarebbe il caso di pubblicarne meno e richiedere alla funzione critica di svolgere il suo lavoro e non fare l’ufficio stampa delle case editrici? Vedi un po’, potrebbe succedere che, di meno libri, si vendano più copie. Potrebbe succedere anche che chi ama leggere impari a farlo attraverso la frequentazione di buoni prodotti – anche, va benissimo, di genere ‘rosa’ o simili, del genere in cui il patto con il lettore è prescritto, che non per questo debbono (e infatti non sono) necessariamente prodotti scadenti. Tra l’arte e l’artigianato di buon livello i confini non sono così ovvi come oggi va di moda credere. Ma lo sono tra un artigianato di qualità e un prodotto raffazzonato.