Quando non leggere potrebbe essere un dovere. Forse malinteso

Jonathan Littell, Le benevole

Jonathan Littell, “Le Benevole“, Einaudi 2014

Premetto che questa è una non-recensione. Perché non è possibile valutare un romanzo (un malloppone di quasi mille pagine)  di cui si è letto a malapena un quarto del tutto.

Vorrei, qui, proporre e condividere un dilemma: se sia ‘giusto’, e anzi ‘doveroso’ lasciare una lettura che, mentre costituisce un’esperienza faticosa e fonte di profondo disagio (dato dall’esperienza dello specchio, dal vedervi riflesso l’essere umano nel suo aspetto più nero), implica anche l’accettazione di premesse a mio parere moralmente non accettabili; un lettura che, in qualche modo, chiedendo di comprendere, in realtà chiede di colludere.

Ho iniziato da tempo la lettura di “Le benevole”, di Jonathan Littell, opera prima, terza edizione italiana e caso editoriale internazionale di prima grandezza, proseguendola a spezzoni, interrompendola ad ogni passo. Per la lettura di questo libro c’è bisogno, almeno per me, di lasciare che ciò che si è letto venga accolto e compreso in tutto il suo orrore, mentre non vi è alcun pericolo che la memoria di ciò che è stato letto ci lasci.

Provo a dire di cosa si tratta; ne avevo già accennato in un precedente Parliamone e riprendo ciò che avevo scritto: Il romanzo narra, in prima persona, la vita di un ufficiale delle SS, personaggio di invenzione che, rifugiatosi in Francia al termine della guerra, vive una tranquilla vita borghese senza che mai il segreto della sua vita precedente sia scoperto; e racconta, per sé. Forse. E’ il racconto di un ‘non pentito’, una storia vista dalla parte del criminale. E della sua proposta ‘normalità’, aggiungo.

Detto, dunque, che si tratta di un evento editoriale e di un libro che non è possibile sottovalutare, mi interrogo, e sento il bisogno di confrontarmi sulla scelta di proseguirne o meno la lettura. Mi trovo a non sapervi rinunciare e, nel contempo, a valutare l’opportunità di farlo. Confesso che, in questi termini, fino ad oggi, questo non mi era mai accaduto prima. Ne parlo, dunque, sperando in un confronto con chi lo abbia già letto (o tralasciato); e perché scriverne aiuta a fare il punto e arrivare ad una scelta. Difficile, davvero.

Ciò che, fin dalla prima pagina, aveva instillato in me il desiderio e il dubbio su questa lettura è la bellissima e respingente apertura.

Incipit: “Fratelli umani, lasciate che vi racconti come è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo.

Inevitabilmente, scatta l’opposizione e ci si trova a dire che invece sì, vogliamo saperlo; che sì, è doveroso saperlo; e che sì, gli uomini sono tutti ‘fratelli’.

La voce narrante prosegue. Mentre si avanza nella lettura e nel bisogno di comprendere e accettare la proposta – comprendere e accogliere la figura del protagonista e il suo vissuto; mentre vengono snocciolati i dati dell’orrore; si giunge al punto che, per quanto mi riguarda, ha costituito, quasi subito, il primo momento di sospensione della lettura.

Pagina 21: “Ancora una volta, siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. (…) Penso mi sia permesso concludere come un fatto assodato dalla storia moderna che tutti, o quasi, in un dato complesso di circostanze, fanno ciò che viene detto loro di fare; e, scusatemi, non ci sono molte probabilità che voi siate l’eccezione, non più di me. Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace.”

E qui <deve>, a mio parere, con il riconoscimento del fatto denunciato (perché di fatto si tratta: è vero, gli uomini ‘obbediscono’), scattare il NO. Un NO forte, assoluto, imprescindibile. Un NO che non ha a che fare con la contabilità di quanti, se, quali di noi, in situazione, siano crollati, crollino, crolleranno; il problema non sta nel sapere se sia più affollato l’inferno o il paradiso, tanto per utilizzare un mito condiviso, né se, singolarmente, debbano essere o meno accolti coloro che sono caduti. Sta nel fatto che è necessario sapere quando occorre DIRE DI NO, pena il nostro morire alla vita, agli affetti, all’intelligenza, al riconoscimento di noi stessi – cosa diversa dalla morte individuale, dal nostro destino di mortali che comprende in sé il significato dell’essere vivi.

Con questo NO, e con l’ambiguità di un riconoscimento obbligato e importante (“fratelli umani”) ho proseguito, a spezzoni, la lettura; sto proseguendola, interrompendola con altre letture, altri generi; soprattutto racconti, o opere brevi (come la rilettura degli ultimi due piccoli saggi proposti); porto avanti, a piccolissimi passi, una lettura che non so interrompere e non so proseguire; meglio, una lettura che dubito debba essere proseguita. Una lettura che – è ciò che sento – portata a termine, conduce alla complicità, inevitabile quando si sia accettata la relazione, quando si sia accolto l’aggancio canaglia iniziale: “Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene”.

È un fatto, e non può essere misconosciuto (qui stanno il dilemma e la canagliata): nessuno può dirsi innocente; non è innocenza non voler sapere; non è innocenza respingere la conoscenza del nostro lato oscuro. Per dire NO occorre guardare in faccia se stessi e il nemico, conoscerlo e riconoscerlo. Ma qui, ci viene chiesto qualcosa di molto diverso.

Ho fatto ciò che solitamente, in corso di lettura, non faccio: ho cercato, e letto, recensioni su questo libro perché mi era necessario sapere; non potevo conoscere ancora, nonostante il prologo, e a lettura in corso, mentre scorrevano gli eventi, il vissuto del protagonista – giorno per giorno giorno ora per ora, i modi i luoghi dello sterminio degli ebrei dell’Ucraina del settembre 1941, e avanti, verso dove la storia sarebbe evoluta; non potevo sapere se le premesse sarebbero state mantenute nel senso in cui erano dichiarate. Non lo so ancora, ovviamente. Parlo di un libro la cui lettura, al momento, avanza con tale lentezza da potersi considerare di fatto interrotta; parlo tuttavia di un libro che non so se riuscirò a lasciare.

Come ovvio i pareri dei recensori sono discordi, ma meno di quanto avrei potuto pensare. L’impressione è di un diffuso respingimento, talora di un disagio: in cui mi riconosco. E ho trovato l’espressione più (a me) consona, più in linea con il mio sentire, in una recensione di Wu Ming 1, risalente al 30 settembre 2007, pubblicata su L’Unità e ripreso da Carmilla (QUI) in cui, tra l’altro, si legge:

“Perché è chiaro fin da subito (dal lungo prologo intitolato “Toccata”) che “Le benevole” di Jonathan Littell vuole imporsi come il romanzo supremo e definitivo su Germania nazista e sterminio degli ebrei.” (…) Littell, per dirla in una delle sue lingue native, has got a point, eppure il suo successo è un fallimento, perché mi anestetizza, toglie calore alle dita che reggono il libro. L’inflazione della valuta-morte mi fa davvero sembrare uno sterminio poco più di una statistica, e il rischio è che diventiamo più cinici anziché più vigili nei confronti di noi stessi. Eterogenesi dei fini. Per metterla giù in modo chiaro: finiamo la lettura più stronzi di quando l’avevamo iniziata.”

Wu Ming 1, tuttavia, scrive anche: “Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si deve ignorare, che va letto e affrontato

Per me il dubbio rimane. Non è vero che tutto, a questo mondo, vada ingoiato per sapere se fa male. È vero invece che tutto ciò di cui ci nutriamo ci modifica, che non saremo, dopo, le stesse persone di prima: e ne va tenuto conto.

Pure. Resta, per me, che la lettura è in corso, il processo di cambiamento è iniziato. Dovrà essere, sarà completato? Non lo so.