
Questa sarà – deve essere – la settimana della gita in libreria: da troppo tempo mi limito ad una entrata uscita veloce, ad un acquisto al volo, e sono addirittura in arretrato sull’acquisto di copia cartacea dei libri che, nell’urgenza, ho acquistato in e-book: un esempio per tutti: “Norvegian Wood” di Haruki Murakami, che sto leggendo. Sarà la prossima recensione, o una delle prossime.
Vero è che mi trovo in fase di riletture. “Norvegian Wood” costituisce l’eccezione: trattandosi pur sempre di un’opera non nuova (scritta nel 1987, Italia, Einaudi 2006) e di un autore conosciuto e che apprezzo. Accade che, non so voi, ma io non sto trovando, in questo periodo, libri di nuova uscita da desiderare.
Niente di grave. Rifletto sul fatto che, in una intera vita, sono molto pochi i libri che potrò leggere, tra tutti quelli che lo meriterebbero, o anche solo tra tutti quelli alla mia portata e significanti per me: piccolissima parte del tutto, infinitesimale e tuttavia infinitamente al di fuori di ogni tempo individuale. E dunque – vale per tutti – il danno che si riceve dal dedicarsi ad un brutto libro, ad un libro banale, o anche solo ad un libro sbagliato per noi in quel momento, è enorme.
Pensavo, nel contempo, alla mia abitudine di rileggere e rileggere i libri che mi piacciono; abitudine che, quand’ero bambina, quand’ero giovane, sicuramente dipendeva dalla difficoltà, anche ma non solo economica, di procurarsi nuove letture. Era necessario aspettare il regalo, mettere da parte i soldi della paghetta, insistere, cose così. L’Italia non era il paese delle biblioteche pubbliche, finalizzate al prestito, per un pubblico di lettori.
Era anche un altro tempo, dove tutto era più lento. Un libro, ogni libro, era un acquisto ben ponderato, e di ogni libro veniva succhiato tutto il sugo, veniva rimasticata ogni parola, venivano assaporati tutti gli ingredienti. Un libro era qualcosa che si acquistava perché durasse, e sì, anche perché venisse letto a lungo, non una sola volta. E non era quasi mai una nuova uscita – anche, certo, ma con prudenza, avendo acquisito le debite referenze; il nuovo romanzo, il saggio, doveva essere prima accreditato, e solo allora lo si sarebbe posto con cura nei nostri scaffali; un libro acquistato era destinato ai figli e ai figli dei figli; la biblioteca di casa era ‘di famiglia’, non ‘personale’.
Nessuno aveva ancora immaginato le edizioni economiche benemerite, salvo la Rizzoli, al tempo editrice di periodici che, nel 1949, aveva lanciato sul mercato i libricini della collezione BUR, che misero a disposizione del grande pubblico i classici, dalla latinità fino a: ecco, non lo so, certamente a nessuna pubblicazione contemporanea o anche solo recente. Erano dei cosini grigi, copertina in cartoncino leggero, le cui pagine si staccavano alla prima lettura. Costo: cento pagine per cinquanta lire. Prima uscita “I promessi sposi”.
Non ne possiedo più neppure uno, non si sono salvati, non erano stati pensati per essere salvati, immagino, e comunque, proprio perché, anche di questi, non se ne acquistavano molti, venivano brancicati a lungo, fino a disfarsi tra le mani.
Fu l’avvio del cambiamento, un grande avvio, cui essere grati, che nulla ha a che fare con il suo esito odierno.
A quel tempo, dunque, i libri che si potevano leggere, nel corso di una vita, erano ancora meno di oggi. Così sembrerebbe. Ma così non è, poiché venivano scelti i libri che ‘dovevano’ essere letti, e che venivano veramente letti. Che duravano. Che, dunque, costituivano un patrimonio trasmissibile, e nel tempo si accumulavano come un vero tesoro, come una collezione pensata, di valore, e non come un accumulo.
Lungo questa via, i libri portavano a una formazione (ma non è questo il termine giusto) condivisa; era come se tutti, condividendo le letture, consolidassero una cultura, in senso ampio, una possibilità di dialogo, di confronto e scontro, su valori e idee. Sto certamente divagando e pensiero chiama pensiero. Domani non concorderò con quanto sto scrivendo ma va bene, le idee si formano così, ponendole e eliminandole, per confrontarle, per vedere, alla fine, cosa resta. Qualcosa dovrebbe restare. Qualcosa di pensato.
Oggi, io considero la mia biblioteca, in buona parte, come personale; quando i miei figli vivevano in casa avevano i loro libri e, se certamente ogni libro poteva essere a disposizione di tutti, ciò non annullava il possesso individuale. Venivano chiesti ‘in prestito’ al proprietario, facendo, con ciò stesso, di una sia pur piccola biblioteca della casa, un qualcosa destinato a mantenere il proprio senso solo per la vita di una persona; poi, si sarebbe visto, qualcosa sarebbe stato tenuto qualcosa no. Io ci penso, abbastanza spesso, a cosa sarà dei miei libri, dopo di me, alla possibilità che finiscano alle bancarelle, quando non al macero. Triste. Molto triste.
E ora, con “Norvegian Wood” mi sono ritrovata tra le mani un libro che dava parole e voce ai miei pensieri. Senza anticipare nulla – ma molti hanno sicuramente già letto Norvegian Wood – da qualche parte, nella parte iniziale del libro, Haruki Murakami fa dire al suo personaggio di essere stato, da ragazzo, un grande lettore che, tuttavia, leggeva pochi libri perché amava rileggere sempre lo stesso, infinite volte. Più avanti, c’è un altro personaggio che esclude dalle proprie letture qualsiasi libro abbia meno di trent’anni e il cui valore non sia stato, dunque, confermato dal tempo.

Ecco, tutto questo non è centrale nella storia, ma questo è ciò che, arrivando a me, ha portato un immediato amore per questo libro, quella sensazione che prende quando si pensa di avere tra la mani qualcosa che ci rivelerà il segreto che stiamo cercando, quella cosa non saputa su di noi, sulla nostra vita, quella cosa che tramuterà i nostri contorcimenti in serenità e chiarezza del nostro sguardo su di noi e sul mondo. “Norvegian Wood” è classificato come ‘romanzo di formazione’, come “Il giovane Holden” di J. D. Salinger. Dovrebbe essere tardi, per me.
Ora, mentre proseguo la lettura, mi sto anche interrogando su questo libro, senza dubbio interessante. Nel frattempo, continuo a riflettere sul fatto che, dovendo rinunciare a leggere la maggior parte dei libri che mi farebbero bene, dovendo operare una scelta, il suggerimento non dico di escludere tutto ciò che è contemporaneo ma di limitare un po’ la quantità delle proprie letture e rileggere maggiormente, ascoltare bene le parole, ascoltarle con età, giudizio, desideri e bisogni cambiati, è forse salutare. Forse dovrei recuperare la parsimonia di un tempo, non usufruendo della lettura e dei libri come di un’attività a consumo, che rischia di avvicinare il tutto al modello usa e getta, dove poco finisce per essere assimilato.
Leggendo, in questo caso sulla stampa quotidiana, qua e là, diatribe su sindaci che tolgono dalle biblioteche libri per bambini, su altri che cancellano manifestazioni letterarie create da loro predecessori di segno politico diverso, cose così, e interventi in merito di chiamiamoli intellettuali e definiamoli accreditati da una parte e dall’altra, mi è piaciuto un intervento di Corrado Augias che, con perfetto aplomb, ha commentato, a proposito di scelte di esclusione del tale e del tal altro dalla tale e dalla tal altra manifestazione culturale: “«Sono liste che rievocano il fascismo. Compiango il (non importa chi) che ha avuto letture scarse». (La Stampa, 24.01.2016).
Ecco, quello ‘scarse’ ha sicuramente un riferimento alla qualità e non alla quantità, sempre comunque limitata, delle letture di chiunque.
Mi propongo, da qui in poi, di leggere un minor numero di libri. Più lentamente. E di rileggere molto. Non manterrò la promessa.