Norwegian Wood

Norvegian WoodMurakami Haruki, “Norwegian Wood (Tokio Blues)”, Einaudi 2006

Traduzione e Introduzione di Giorgio Amitrano

 

Sollevai il viso, e mentre guardavo le nuvole scure sospese sopra il Mare del Nord, la mia mente andò a tutte le cose che avevo perduto nel corso della vita. Il tempo passato, le persone morte o mai più riviste, le emozioni che non possono rivivere

Un atterraggio all’aeroporto di Amburgo, novembre, pioggia. Mentre i passeggeri si apprestano a scendere, gli altoparlanti diffondono una musica di sottofondo. È una versione orchestrale di Norwegian Wood, una delle melodie più suggestive, anche se forse non delle più note, dei Beatles. Quella melodia riporterà il nostro protagonista – Watanabe Tōru, il narratore – a vent’anni prima, ai suoi vent’anni o quasi.

Autobiografia? Anche. Un personaggio di fantasia. Haruki Murakami ha sentito il bisogno, per questa sua opera, per tanti versi anomala, di scrivere un Postscriptum, in cui lo ha definito “un libro molto personale”, nonché un libro che “chiedeva di essere scritto più di quanto io mi rendessi conto”.

Già a questo punto, la mia recensione, che più che mai non sarà tale, si inceppa. Parafrasando: ho letto un libro che chiedeva <a me> di essere letto più di quanto io mi rendessi conto.

Un libro sul ricordo. Che ha risvegliato ricordi, per quell’esperienza comune che caratterizza l’età della formazione, per i richiami (è la mia storia!) e per le diversità (poteva essere, anche per me, e non è stato), che costituiscono uno dei modi forti del richiamo.

Tōru ha trentasette anni, al momento dell’atterraggio all’aeroporto di Amburgo; fuori piove. Le note di Norwegian Wood mettono il ricordo in assonanza.

Fino a quando l’aereo non si fu completamente arrestato (…) rimasi tutto il tempo in quel prato. Assaporavo il profumo dell’erba, sentivo il vento sulla pelle e i gridi degli uccelli. Era l’autunno del ’69, e di lì a poco avrei compiuto vent’anni.”

L’hostess preoccupata dal passeggero che sembrava non stare bene, che aveva chinato la testa, nascosto il volto tra le mani, offre aiuto.

“Tutto bene?”

“Sto bene adesso grazie. All’improvviso mi era venuta un po’ di malinconia, – dissi sorridendo. – Tutto qui”

La storia, il compito del ricordo, ha inizio; il tema del ricordo imperfetto, del ricordo che ci lascia, della memoria dei volti che svanisce; il volto di Naoko che fatica a ripresentarsi, che riemerge, con tratti incerti, dalla memoria di un prato, di un luogo, uno sfondo chiaro a tutti i sensi, che non ricordava di aver trattenuto. Che non contiene volti, perduti? Che si devono recuperare, che stanno là, che danno spessore alla dimenticanza.

Naturalmente lo sapeva benissimo. Sapeva che prima o poi in me il suo ricordo avrebbe cominciato a sbiadire. Ed è per questo che mi aveva pregato: “Non ti dimenticare mai di me. Ricordati sempre che sono esistita”.

Diciannove anni, inizio dell’università, Tokio, la prima esperienza di vita fuori casa, una scelta che aveva a che fare con il bisogno di lasciare dietro di sé, con i propri luoghi, la morte, il suicidio, di Kizuki, il suo più caro, il suo unico, amico. L’incontro, a distanza di tempo, con Naoko, la fidanzata di Kizuki, ragazza fragile – o forse invece molto forte; il formarsi di un legame, che nasconde e conserva dentro di sé Kizuki, segnato dall’emergere della sofferenza grave di Naoko; e Tōru, che non sa comprendere Naoko, ma che sente il carattere di necessità di quel loro legame, sentirà, e vivrà il suo – Amore? Difficile dirlo, a quell’età.

Una vita da studente, sradicata, a prendere le misure al mondo. Relazioni con gli altri, poche, Tōru è un solitario, vive con i suoi libri, mentre studia materie che non lo interessano, senza sapere di sé, vivendo come difficoltà, conosciuta e accolta, come percezione di una propria inadeguatezza, l’onestà dei suoi anni, la ricerca di relazioni vere, impossibile averne molte, salvo i libri, ecco, i pochi libri letti molte volte.

Il compagno di stanza, Sturmtruppen, così soprannominato per la sua ossessione per la pulizia, per la cura della propria forma fisica, per le regole di vita scandite e osservate, macchietta inconsapevole, bersaglio di aneddoti gustosi, che Tōru utilizzerà a piene mani per intrattenere Naoko, e non lei sola, raccontando di lui con involontaria cattiveria. Sturmtruppen un bel giorno sparirà dal collegio e non se ne saprà più nulla, rimanendo un momento di nostalgia e di verità irrisolto. Solo apparentemente secondario, come ogni domanda priva di risposta.

L’amico Nagasawa, ricco, figlio di una famiglia importante, estroverso e carico di una malvagità sofferta e consapevole. Li unisce il culto di un libro, Scott Fitzgerald, “Il grande Gatsby”.

La sessualità impellente e dal significato controverso; le esperienze cariche di piacere e prive di gioia. La scoperta dell’inaffidabilità possibile dei legami, la possibilità della slealtà nei rapporti in cui si era posta fiducia.

Midori, la bella strana ragazza che offre amicizia, che lo trascina nella propria vita – e ancora una volta, come avveniva con Naoko, Tōru si troverà a dare la propria adesione, fiduciosa, quando chiamato, a rispondere ad un imperativo morale – e curioso degli altri, e accogliente, come può esserlo solo uno sguardo nuovo sul mondo – che propone e impone l’ascolto.

L’incontro con la morte, non quella, impropria, dell’amico, ma la morte che accompagna la nascita, che ne costituisce il compimento; la malattia del corpo, che decade.

Poi ancora la morte. Poi ancora la sessualità, e il suo creare l’incontro con l’altra, in ascolto di sentimenti e corpo che faticano a colloquiare.

I ricordi riemergono, nella scrittura della storia di un anno di vita: una unica e ininterrotta traversata di un territorio ignoto, ad incontrare sé e a scoprire l’incontro con l’altra; non facile, straziante e vincente. A vent’anni di distanza, il bisogno di ripercorrere i ricordi e ammettere che sì, se ne vanno, lasciando i loro frutti, e le cicatrici, che valgono una guarigione mai gratuita. La nascita di un’altra età. L’esperienza della forza. E la malinconia.

Ci sarà ancora un’altra voce che dirà – Non mi dimenticare, eh! – per poi proseguire la sua strada.

Di questo libro, che costituisce un unicum stilistico nella produzione di Haruki Murakami, che ‘doveva’ essere scritto, la cui fatica, anche se l’autore non dirà così, sta nell’essere stato in precedenza un racconto, nell’essere stato pensato come un ‘libro leggero, una storia d’amore’, si è detto molto. È stato richiamato il Salinger de “Il giovane Holden”, si è ‘scoperto’ che rispecchia la struttura del “Davide Copperfield“, fino a ripeterne un personaggio: ed è ben difficile che uno scrittore non abbia in sé il suo essere lettore. Un libro, tuttavia, diversissimo dai suoi antesignani nella sensibilità che propone per raccontare l’ora in cui il mondo viene affrontato, in cui è necessario entrarvi.

Quegli anni, che certo, sono stati anni un po’ speciali, ma sarà vero? Una società in cambiamento. Antiche regole di via non più capaci di contenerla.

Questo libro è altro. Contiene i sensi, il contatto, gli odori, i cibi e i sapori, occhi aperti e ascolto attento; un libro che è sostenuto da una colonna sonora, Norwegian Wood, certo, e altra musica, ancora musica. Un libro che si legge e si ode, si annusa, che ci porta a conoscere fiori e stagioni, e vento, erba e neve. Il camminare, e il viaggio.

E, con tutti i sensi vigili, dice l’obsolescenza del ricordo, il suo doversene andare per poter essere ritrovato da quell’altro che ognuno di noi diverrà, è divenuto, e che tra i morti ha lasciato andare anche chi egli era.

“A ogni nuova stagione la distanza che mi separava dai morti aumentava. Kizuki aveva diciassette anni (…)”