In attesa di un giorno ad urlapicchio

Fosco Maraini, “Gnosi delle fànfole”, La nave di Teseo 2019Breve genesi e storia delle fànfole. Introduzione di Toni Maraini

Fiore secco in libro vecchio

Ricordi quando usavano le boppie

Calate sui pitànferi supigni,

e légoli girucchi a panfe doppie

ornavano gli splagi e i pitirigni?

Oh zie, oh dolci zie in bardocheta

Voltatevi col glostro ricamato,

scendete per le scale a beta beta

dai màberi del tempo agglutinato!

Chissà laggiù se ancora la sbidiera

grumugna lentamente a cantalaghi

nell’ufe coccia coccia della sera?

Or non più usa uscire sugli sbaghi

guardando avanti a sé con aria altera,

tra i lùgheri, gli arcostoli, gli snaghi.

Sto terminando di leggere “Tempo di regali” di Patrick Leigh Fermor, che, come ogni viaggio che si rispetti, è contrassegnato dalla lentezza, intermezzato da letture, di svago e non.

Viaggio che, come sempre accade, allo spazio aggiunge un tempo, non così lontano, tale da richiamare il ricordo di qualcuno che narrava, mentre il passo, che dal quotidiano correre si fa regolare e piano, scandisce il pensiero che retrocede da noi a loro e ad altri giunti prima, in altro tempo e altro luogo.

Tra un libro-intermezzo e l’altro, mi si è infilata una fànfola qui, una fànfola là, chissà come chissà perché; e potrebbe pure essere stato inevitabile.

Dopotutto, il compagno di ogni viaggio non è solamente la lettura: è anche scrittura; è il Moleskine, è l’appunto-frase spezzato; la cancellatura, lo scarabocchio. Sono i canti e i ritmi e i suoni – cosa evoca cosa? – sono le note a margine, zibaldoni frantumati rimestati e tutto insieme.

Diveniamo, leggendo, lettori-autori. E veniamo travolti dall’esperienza.

Sarà necessario il riposo, tra un tratto e l’altro; non ci potrà essere fretta per il viaggiatore-lettore. Occorreranno parole. Per dirne, certo; anche solo per presa d’atto: inevitabile occorrenza di ogni nostra azione.

Occorrerà aggettivare ogni emozione-ricordo nostro-altrui. Con parole che potranno rimanere inespresse. Inesprimibili? Che lasceranno ombre, parvenze: da raccogliere, ricostruire in sogni rompicapo.

E la bestemmia-imprecazione contumelia? Ci sta pure. Da condensare, diluire. Quando il pensiero si ritrova affollato, quando leggere e scrivere si “agglutinano” ed occorre espellere qualche pensiero dal mucchio.

Come sarà mai possibile espellere della mente un pensiero che la occupa, se lo spazio dominato da quel pensiero non verrà occupato da un altro? Da un pensiero riposante, accattivante; dalla scoperta di situazioni, da raccontare, in cui perdersi, da mettere a fuoco, da aggettivare dove non ci saranno parole buone per noi, dal significato condiviso, aggettivi-emozioni-cose.

Le parole mancano, compaiono, si sfanno, stralunate e mai sentite, buone per il pensiero di ognuno e solo per lui; si ricompongono, al giusto modo loro ed ecco, il riposo sarà regalato da parole segrete e senza oggetto prescritto – che brutta ogni prescrizione, imposizione! – e pure la bestemmia-improperio ci starà; con, anche, e anche no, l’allegria, la furia e lo sconforto; ma neanche tanto se sarà trovato il suono-parola che lo dice.

È quel che ci vuole, per proseguire il cammino, mentre restiamo qui, chiusi fermi, irretiti; mentre il pensiero solo va girando, cercando assommando, per ricercare e infilare un’uscita.

Che fanno?

Cancella il mondo, o Sdrènfano! Ti dico

Cancella quest’ingubbio ammorboluto;

è inutile timpare a canciafico

gli sbrègi d’un blafònfero fognuto.

Che fanno i morzacacchi, i gloriconi?

Strabosciano in moffucci, in godicaglie.

Che fanno i migarelli? A strabuconi

Gratterchiano le zocchie e le morcaglie.

Ahi Sdrènfano vantardo e carpiniero

strabasta con gli sbrilli e con le ciance.

È tempo, metatempo, stratempiero:

cancella il mondo, Sfrènfano, stracance!

E sarà finalmente “gnosi”: per questa via, sarà conoscenza-confidenza, sarà un nostro Io con il divino; un’epifania.

Sarà la strada dell’allegria. Ed arriverà – o partirà da una giornata di quelle così.

Il giorno ad urlapicchio

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi

Col cielo dagro e un fònzero gongruto

Ci son meriggi gnàlidi e budriosi

Che plògidan sul mondo infragelluto,

ma oggi è un giorno a zimpagi e zirlecchi

un giorno tutto gnacchi e timparlini,

le nuvole buzzìllano, i bernecchi

ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

è un giorno per le vànvere, un festicchio

un giorno carmidioso e prodigiero,

è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio

in cui m’hai detto “t’amo per davvero.”

Sarebbe sicuramente necessario parlare di Fosco Maraini, il Viaggiatore, e tutto il resto; dovremmo parlare di lui e della storia delle fànfole, di cui scrive, in premessa a questo piccolo libro, la figlia Toni.

Occorrerebbe dire qualcosa della poesia metasemantica, se non altro per la necessità che pone di venir parlata, per la richiesta di sonorità verbale che implica – ma che dovrebbe, in ogni modo, appartenere alla voce e all’emozione singole di ogni lettore, pena il mandare a farsi benedire la qualità metasemantica della narrazione poetica, avendola vincolata ad un’interpretazione che l’uditorio dovrà accattare e tenersi, per quanto goduta sia.

Perché sta qui il ghiribizzo; nel punto in cui le parole (cosa divina le parole, indicibili per loro natura; il loro costituirsi come paradosso, che peraltro non è mai tale; che se lo apparirà, sarà altro, sarà mala-confusione del pensiero), divenute meta-parole, dovranno mantenere aperto il proprio significato; e venir scritte – e parlate – dal lettore, per sé solo.

Sarà, dunque, e solo forse, per un’altra volta.

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Ci ho ripensato. Cedo alla voglia di una piccola aggiunta. Dopotutto, anche nel corso di un giorno ad urlapicchio, come dimenticare: tutto è iniziato con “il Lonfo”, e sarà opportuno ricordare, e fare attenzione.

IL LONFO

Il lonfo non vaterca né gluisce

e molto raramente barigatta,

ma quando soffia il bego a bisce bisce

sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.

È frusco il lonfo! È pieno di lupigna

arrafferia malversa e sofolenta!

Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna

se lugri ti botalla e ti criventa.

Eppure il vecchio lonfo ammargelluto

che bete e zugghia e fonca nei trombazzi

fa lègica busìa, fa gisbuto;

e quasi quasi in segno di sberdazzi

gli affarferesti un gniffo. Ma lui zuto

t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.