Un libro bellissimo: non piace ai genitori

Mark Twain, “Le avventure di Huckleberry Finn”, Einaudi 2007:

Questo bellissimo libro attendeva da tempo di trovare qui un suo spazio. Avevo qualche remora nel proporlo. Esitavo nella scelta tra Huck Finn (il mio preferito) o Tom Sawyer (il più “accreditato”). Nel caso, Huck Finn dovrebbe venir proposto in seconda battuta: ma è un libro che può benissimo venir letto a sé perché non è, in realtà, un vero sequel del Tom Sawyer.

Resta, indiscutibile, che Tom è sempre stato preferito a Huck, quantomeno nella scelta, per i loro ragazzi, da parte di genitori, insegnanti, educatori – adulti, insomma, da cui purtroppo i bambini-lettori dipendono. E il perché non è troppo difficile da indovinare.

Tom, un ragazzino orfano di entrambi i genitori, vive,  amato ed accudito, con una zia; facendola disperare, ma anche divertire, con la sua insopprimibile fantasia nel compiere marachelle e nell’inventare occasioni per mettersi in seri guai.

Tuttavia, monello fin che si vuole, Tom ha, dalla sua, una famiglia stimata e un ambiente sociale economicamente e culturalmente adeguato. Tutto concorre, dunque, a predirgli un futuro da adulto benpensante e utile membro della società. Dopo un’infanzia da scavezzacollo, Tom è destinato a divenire un bravo borghese adeguatamente timorato di Dio o quantomeno rispettoso delle regole e delle credenze socialmente richieste.

Mark Twain

È simpatico, Tom: agli adulti, nonostante metta a dura prova la loro pazienza; ed ai monelli del paese, per i quali è un ideale capobanda.

Inevitabile: il libro è sicuramente molto divertente da leggere per un/una ragazzo/a ma altrettanto sicuramente piacerà, sul piano pedagogico, a genitori benpensanti: cioè a tutti i genitori.

Huck, grande amico di Tom, appartiene a tutt’altro mondo. Orfano di madre, è figlio di un ubriacone, di un rifiuto sociale, di un padre che lo picchia, non si fa carico di lui e lo induce a vivere nella più devastante marginalità.

Huck è il tipico bambino abbandonato per il quale le buone signore, impegnate nella carità, così come i maggiorenti della comunità, cercano, senza grandi speranze, di occuparsi: e occorrerà sicuramente accreditare questi adulti responsabili di buoni sentimenti e di buona volontà, peraltro richiesti dalla loro posizione sociale: dopotutto, quest’ultima non verrà certo messa a rischio dal bimbo e dalla sua condotta, ben ancorata a una solida appartenenze di classe.

Mai, tuttavia, se non per un miracolo, un bambino come Huck potrà divenire, come dire, un loro pari grado. Se tutto andrà bene, potrà divenire un bravo lavoratore, grato a chi lo ha aiutato, capace, perché no, di farsi una famiglia per bene e, sempre perché no, di crescere dei bravi figli. L’ascensore sociale, anche nell’America di quegli anni, era stato pensato per funzionare solo dentro limiti precisi.

E Huck, da parte sua, pur grato per le buone intenzioni di chi lo aiuta, non risulterà particolarmente disposto a perdere la propria libertà. Non solo: costretto dalla vita ad educarsi da sé, Huck è un ragazzino che pensa, che osserva con occhi disincantati la vita della comunità cui appartiene: e trae conclusioni.

Dopodiché: Huck Finn non è (in apparenza) un romanzo di formazione: è un capolavoro a sé; unico nella letteratura americana del tempo.

Occorrerà tuttavia ricordare che Mark Twain, bugiardo confesso che amava particolarmente sconvolgere i benpensanti, è pure – badando bene a non farsi scoprire – un grande pedagogista, per ogni età della vita, dato che nessuno di noi, almeno si spera, smette mai di imparare.

Ed eccomi dunque a scegliere “Le avventure di Huck Finn”, tralasciando il più noto (borghese, benpensante) Tom Sawyer.

La storia. Ambientata nella prima metà dell’800, narrata in prima persona dallo stesso Huck – e già questo ne definisce la distanza dal Tom Sawyer – è un resoconto che regala al lettore la voce e il gergo del protagonista.

Incipit:

Voi di me non sapete proprio niente, tranne che se avete letto un libro che si chiama “Le avventure di Tom Sawyer”, ma chi se ne frega. Quel libro l’ha fatto un certo Mark Twain che più o meno ha raccontato le cose come stanno. Qua e là si è fatto prendere un po’ la mano, ma (…). Figuriamoci. Non ho mai visto nessuno che una volta o l’altra non ha raccontato qualche balla (…)”  

Huck, alla fine delle avventure narrate nel primo romanzo è stato adottato dalla vedova Douglas, ed è alle prese con l’apprendimento di buone abitudini – star seduto composto a tavola, non gettarsi sul cibo se non dopo aver doverosamente detto una preghiera, vestire abiti di cui aver cura e che impacciano la libertà di movimento; andare a scuola: esperienza devastante, quest’ultima, anche se, a poco a poco, le cose paiono indicare una possibilità.

Huck è tuttavia depresso. La sera, nella sua cameretta, non riesce a dormire.

“Mi sentivo così solo che avevo voglia di morire. Le stelle luccicavano, e nel bosco le foglie stormivano sempre più tristi. E ho sentito una civetta lontana, che si lamentava per qualcuno che era morto, e un succhiacapre e un cane che piangevano per qualcuno che doveva morire; e il vento cercava di dirmi qualcosa che io non riuscivo a decifrare, e allora mi è venuta la pelle d’oca. In quella, lontano giù nel bosco ho sentito il rumore che fa un fantasma quando vuole dirti qualcosa che ha in testa ma non sa come farsi capire (…) Mi è venuto lo sconforto e mi sono talmente spavento che avrei tanto voluto un po’ di compagnia (…)”

Involontariamente uccide un ragno e, sicuro che questo gli porterà sfortuna, mette in atto i riti magici che “conosce”

“Mi sono alzato e ho fatto tre giri su me stesso, con un segno di croce a ogni giro. Poi mi sono legato una ciocca di capelli col filo, per tenere lontane le streghe. Ma sapevo che non bastava. (…)

Ma ecco: dalla finestra gli arriva un segnale, il miagolio concordato, e…

“…ho spento la candela e sono sceso dalla finestra lungo la tettoia, fino a terra. Striscio piano tra gli alberi ed ecco che lì c’è Tom Sawyer che mi aspetta”

La vita torna a sorridere. C’è l’amico da raggiungere, e la piccola banda, con cui tramare avventure.

La sorte tuttavia si accanirà su Huck. Il padre, che era scomparso, si ripresenta, pronto a devastare nuovamente la vita al figlio; che riprenderà con sé, con la forza.

Huck riuscirà a fuggire, dal padre, dalla vedova Douglas e dalla scuola – riparandosi su di un’isoletta del Mississippi, sulle cui sponde si trova il paese immaginario in cui vivono Tom e Huck.

Inizia una fuga in cui Huck avrà come compagno Jim, lo schiavo nero della vedova Douglas che, a sua volta, è fuggito avendo avuto sentore che lo si voleva vendere.

Ci saranno incontri ed esperienze: violenza e salvezza; sempre provvisorie.

Huck vivrà peripezie a non finire sul fiume, in una zattera, lungo il Mississippi; verso la libertà, per Jim, che si rivela l’adulto di cui il ragazzo aveva bisogno, su cui poter contare; e verso la ricerca, per sé, di una vita libera.

Ed ecco la grande ricchezza di questo romanzo: sotto forma di domande, sotto forma di vissuti, verremo a conoscere la realtà della schiavitù; incontreremo il dubbio morale, tutt’altro che ovvio quando, vivendo dentro una società, (e vale ieri come oggi, e per ognuno di noi) se ne accolgano acriticamente i supposti valori.

Huck si sente moralmente in colpa per il fatto di star favorendo la fuga di un <negro> dalla sua <padrona>: lui <sa> che ciò è <male> e tuttavia: come non amare Jim, come non riconoscere il suo essere una persona, e una brava persona; come pensare di poter tradire chi ti salva la vita e provvede a proteggerti; colui che di te si fida; colui che, è evidente, ti vuole molto bene, e si preoccupa per te: per affetto, non per insegnarti buoni comportamenti privi di valore in sé.

Il ragazzo la ragazza che leggeranno “Le avventure di Huck Finn” porranno e si porranno a loro volta domande. Costringeranno il loro adulto di riferimento a dare risposte; talvolta a cercare, con loro, di rappresentarsi una parte della storia degli Stati Uniti d’America il cui deposito agisce tutt’oggi, anche per noi.

Ed ecco la permanenza di una Linea del colore; ecco il mito della frontiera che ancora confligge con l’idea di un possibile mondo di pace e con una pace sociale nella vita delle comunità.

È certamente (anche) un libro per ragazzi, che abbiano al loro fianco adulti capaci della fatica di non fuggire dal riconoscerne le domande, la sofferenza, la fragilità e, sì: la forza. Adulti capaci di non proteggere se stessi attraverso la censura a danno dei figli.

È indiscutibile (solo per me? Non lo credo) che quell’anima fintamente dannata di Mark Twain abbia scritto il Tom Sawyer proprio per poterci, poi, rifilare Huck Finn che chiude – come di prammatica per il genere, e come era avvenuto nel Tom Sawyer – con una fine buona per tutti: ma non proprio, dal punto di vista di quella ipocrita società borghese contro cui Mark Twain si è sempre battuto.

E zac! Ecco uno dei libri più rivoluzionari e più godibili della letteratura americana;  nonché il miglior manuale di pedagogia che mai sia stato scritto.

Huck Finn è perfetto per far sentire dei ragazzini in compagnia di un vero amico, con cui condividere fantasie, credulità improbabili ma che tanto aiutano noi bimbi a rassicurarci sulla nostra capacità di controllare un mondo allora come oggi poco rassicurante per la nostra fragilità; capaci di affrontare paure che credevamo solo nostre, neppure confidabili ad un amico; di porci domande profondamente morali, incerti sul dover seguire gli insegnamenti adulti, cui anche il più discolo dei monelli in realtà si affida: dopotutto, se da ragazzini spesso deridiamo i nostri adulti, e talvolta persino li disprezziamo, nel profondo confidiamo sul fatto che loro <sanno>, <debbono> sapere:  su cosa, altrimenti, potremmo appoggiare la nostre paure e le nostre incertezze.

Certo non vi dirò come finirà la storia. Dirò solo, perché è implicito in un libro per ragazzi, che finirà bene: ma non proprio, come era accaduto in “Le avventure di Tom Sawyer”, nel rispetto della buona morale borghese.

Al futuro di Huck dovrà pure venir lasciata un’apertura; che non è presente, non per Tom e non per Huck, nella chiusura di “Le avventure di Tom Sawyer”; felice, certo, ma appartenente al genere gradito ad educatori non <diversamente bugiardi> come Mark Twain.

Copertina della prima edizione, 1884: da Wikipedia

Vediamo, per capirci, nelle pagine finali del Tom Sawyer, un piccolo pezzettino di dialogo di Tom verso Huck.

“(…) Ma, Huck, non potremmo mai lasciarti entrare nella banda, se non sei un poco più rispettabile, tu mi capisci…”

Capito? Sogna sempre di fare “il masnadiero”, Tom, ma già distingue bene la necessità di rinchiudere il sogno-gioco dentro un pezzettino di tempo dell’infanzia. Ha già scelto di non portarlo con sé nella vita adulta.  

Tom ha rinunciato: senza parere ma ha rinunciato. E zia Polly sarà contenta di lui.

Mark Twain ha posto un chiaro e inequivocabile “Avviso al Lettore” in apertura di queste sue pagine:

AVVISO

Chiunque si azzarderà a cercare un senso in questa narrazione sarà perseguito a termine di legge; chiunque si azzarderà a trovarvi una morale verrà esiliato; chiunque si azzarderà a trovarvi una trama sarà giustiziato.

Per ordine dell’Autore

Direttore dell’Ufficio Decreti