Una bella favola. Gustosi pettegolezzi

Karen Blixen, “Ehrengard”, Adelphi 1979.

Traduzione di Adriana Motti

 

“Una vecchia dama raccontò questa storia.”

Questa mia storia, ella cominciò, è avvenuta centovent’anni or sono (…). (…) Gli uomini e donne che allora contribuirono al suo svolgimento, e per i quali essa fu una questione di vita o di morte, sono tutti scomparsi da un pezzo. Può darsi che adesso, davanti al trono dell’Agnello, si scambino ogni tanto un sorriso e un accenno: “Oh sì! E vi ricordate…?” Le strade e i sentieri lungo i quali essa trascorse sono ormai sommersi dalle erbacce, non si riesce nemmeno a trovarli

Non era tra i miei programmi rileggere, dopo quasi quarant’anni, “Ehrengard”, l’ultimo lungo racconto di Karen Blixen. È accaduto un po’ così, come quando, a sera, dopo una giornata bella e stancante, carica di incontri e attività, ci si prepara al sonno cercando, come i bambini, il viatico di una favola, di qualche pagina leggera, di tutto riposo: si scorrono gli scaffali e si cerca un libro per la notte, per <quella> notte.

So bene, come qualsiasi lettore-lettrice di lungo percorso (l’età ha i suoi, pur piccoli, pregi) che rileggere un libro appartenente ad un nostro altro tempo di vita, a distanza di decenni, può riservare sorprese. Una in particolare, rischiosa: la nuova lettura potrebbe cancellare la particolare melodia che quel libro aveva lasciato in noi; che sarà perduta per sempre – cosa triste, come lo è sempre la perdita, sia pure solo del ricordo, di un’emozione.

Ci si ritroverà forse a doverlo riconoscere: il tempo ha silenziato, indurito, le corde del nostro strumento e non sappiamo più risuonare con quel libro.

Talvolta –grande gioia – la nuova lettura, mantenendo un’eco di quella di un tempo, vi affiancherà invece una nuova voce. Due età della vita si incontreranno e ascolteremo una melodia arricchita dall’entrata di un’altra voce in risposta, come in un canone inverso, che muterà, esaltandolo, il senso del nostro ascolto.

Non mi era tuttavia mai accaduto, finora, di incontrare, nella rilettura di un libro, pagine totalmente diverse da quelle che il mio ricordo, la mia emozione, avevano conservato.

Ho incontrato un libro – bellissimo, un gioiello – mai letto in precedenza. Un libro che, di primo acchito, nulla aveva a che fare con il mio ricordo. E tuttavia: un libro che mi ha lasciato un grande senso di benessere, confermato da un buon riso di gola, che perdura; di questi tempi, vi ho trovato, e non è poco, il benessere che proviene dal vedere come le cose, tutte le cose, possano cambiare di segno e risolversi in allegria – condita da quel pizzico di vendetta che, quando non agita di proposito, riconcilia con il mondo e con le sue piccole grandi cattiverie.

Ricordavo, aprendo le pagine di “Ehrengard”, un bel racconto, protagonista una giovane “vergine guerriera”, di nobile casato; pura d’orgoglio, intangibile dalle malvagità del mondo. Ho ritrovato il luogo del ricordo, un “piccolo Principato della vecchia Germania, libero, ameno, fiorente, e il cui sovrano non doveva rispondere dei suoi atti a nessun altro che a Dio nei cieli.”

Avevo quasi del tutto scordato, almeno così credevo, la trama.

Rimaneva in me, di quel racconto, un sentimento, un’emozione – una musica – ascrivibile a un romanticismo fuor di tempo. Dalle pagine, ricordavo, sarebbe emersa una figura di eroina senza macchia, capace di mantenere nell’avversità i valori che ispiravano la sua vita, e uscirne intatta.

Sempre nel mio ricordo si trattava di un racconto di formazione; un racconto, se vogliamo, per fanciulle (e perché no, per fanciulli: in questo caso, sì, si tratterebbe in effetti di un racconto decisamente formativo).

Ho trovato, inatteso, un racconto per questi miei anni, dove la grande, saggia, ironia di una anziana narratrice – alter ego dell’autrice, giunta ormai al termine dei suoi giorni – ha potuto declinarsi nei due sensi: la bella favola per la giovane ascoltatrice, per il giovane ascoltatore; la favola intessuta di una allegra e ironica cattiveria (perché c’è, davvero, una cattiveria buona tra i nostri sentimenti; una cattiveria che fa bene al cuore) per ascoltatori attempati  della vecchia dama che narra, nel suo salotto, a una compagnia scelta e smaliziata.

Una favola? Certo che sì. Per adulti, come detto, un po’ cattivi, come dev’essere, altrimenti di quale età adulta staremmo parlando? Per quel po’ di pepe che anche il candore deve contenere. Lo dico sempre ai miei nipotini, quando mi colgono a mettere il pepe nel ragù: il pepe nei cibi è necessario. Non si deve sentire, a fine cottura, ma se non lo si sarà messo, il nostro palato sentirà un sapore irrisolto. Non soddisfacente. È il pepe che rende buono il piatto al palato bambino, pure se lui non lo sa e non lo coglie. All’adulto apparterrà il gusto più pieno, capace di individuare gli ingredienti.

E Karen Blixen è una maga. Capace di dare, ad ogni età, e ad ogni momento della vita, la favola giusta.

Si tratta di un lungo racconto. Un classico; che tuttavia, temo, sia oggi poco letto e dunque, sperando in una sua lettura (o rilettura) non racconterò nulla della trama. Mi limiterò a buttare là qualcosa sui personaggi principali. E sull’ambientazione che, in questo lungo racconto, costituirà, incantevolmente, farina del diavolo.

Protagonista, nonostante il titolo, sarà proprio lui: il diavolo, tale Wolfgang Cazotte celebre pittore, ritrattista delle dame di tutte le case regnanti, a suo modo (decisamente satanico) innamorato (si fa per dire). Se non fosse che il nostro ha una concezione dell’amore che desidera suscitare in una donna molto particolare. Ce lo descriverà lui stesso, nelle lettere che invia all’anziana contessa von Gassner, bisnonna della dama narratrice, che un tempo lo aveva accolto presso di sé, costruendone il futuro: una madre, per il Nostro; forse un po’ candidamente incestuosa, certamente curiosa degustatrice dei vizi umani.

Nella storia, Herr Cazotte sarà il Geheimrat, il Consigliere particolare, segreto, della famiglia dei Fugger-Babenhausen, e soprattutto della Granduchessa, regnanti dell’omonimo Granducato.

Conosceremo il giovane Lotario, l’erede del casato, un giovane ricco di ogni virtù. Conosceremo la sua giovane moglie, Principessa Ludmilla.

Abiteremo, con la giovane coppia, in attesa dell’erede, a Schloss Rosenbad, un eremo rococò che si ergeva in posizione incantevole su un declivio accanto alla riva di un lago e in mezzo ai boschi, e del tutto isolato dal resto del mondo: un vero e proprio castello incantato, organizzato da Herr Cazotte per proteggere un grande segreto sull’attesa nascita dell’erede, nel quale il Geheimrat ha provveduto, oltre a curare la bellezza degli arredi da grande artista qual era, a circondare la giovane coppia del necessario personale, accuratamente scelto con il criterio della assoluta fedeltà alla casa dei Fugger-Babenhausen.

Ed ecco, su tutti i fedeli servitori della coppia, ergersi, nel ruolo di damigella d’onore della giovane Principessa Ludmilla, Ehrengard von Schreckenstein, figlia di un generale.

Una giovane valchiria. Allevata tra le più severe virtù militari nel vasto e tetro castello di Schreckenstein, unica figlia di un clan di guerrieri. Un giovane angelo incandescente, quasi incredibilmente adatto a montare la guardia, con una spada di fuoco in mano, davanti al paradiso dei nostri giovani innamorati.

Cos’altro dire, se non di un’immagine che regge tutta la storia; che regge il desiderio di conquista di Ehrengard da parte del nostro Herr Cazotte, di una conquista molto particolare, sul cui esito il Nostro non può avere dubbio alcuno.

Non chiede molto, dopotutto. Un nulla, che diabolicamente è un satanico tutto.

Sarà la Natura ad offrirci, potente di vita e destinata a concludersi nell’annientamento dell’oscurità, l’immagine di ciò che dovrà avvenire di Ehrengard.

“In quale atto, al momento prescelto, una natura come la sua si concederà più totalmente? Me la sono figurata in ogni possibile situazione e atteggiamento, che è già di per sé un piacevole diversivo.

E sono giunto a una conclusione. Nel ‘rossore’”

“In alta montagna, come voi ben sapete, esiste un fenomeno naturale che si chiama Alpen-Glühen. (…) Dopo il tramonto del sole, mentre tutto il maestoso paesaggio montano già si sta ritraendo in se stesso, all’improvviso dalla fila di vette si irradia dal di dentro un fuoco divino, una paradisiaca fiamma d’un rosa intenso, come se esse rinunciassero così a un segreto serbato per lungo tempo. Dopo di che spariscono, e non si può immaginare nulla di più drammatico: hanno tradito la loro più intima essenza e ormai non possono che annientarsi. Segue la notte nera.”

Dunque: un castello incantato, due giovani innamorati, un atteso erede; un grande segreto da proteggere sul nascituro; una vergine guerriera, pura e incapace di concepire se non la linearità della condotta umana.

Una interessante corrispondenza epistolare tra il nostro grande artista e la sua protettrice, che ci sveleranno, via via, un percorso di seduzione tra i più improbabili.

Come in ogni storia, vi sarà il precipitare degli eventi per il destino dei due giovani sposi innamorati. E una grande, inconcepibile, massimamente improbabile, risoluzione del tutto: destino del nascituro e, certo, dell’impresa di seduzione.

In mancanza di uno specchio, provo a indovinare: sul volto del lettore appare lo sconcerto, poi l’accenno di un sorriso, mentre la risata potremmo sentirla gorgogliare, trattenuta, per meglio gustarla. In segreto. A lungo.