L’anno nuovo ha accumulato libri sul mio tavolo. Regali e auto-regali.
Nel mentre, sto ancora leggendo “La montagna incantata”, intercalandone la lettura con qualche racconto, romanzo breve, con qualche spezzone di vecchi libri improvvisamente desiderati, con un piacere e un ritmo lento inusuali.
Il libro di Thomas Mann narra la vicenda di Hans Castorp, giovane ingegnere amburghese, deuteragonista il cugino Joachim Ziemssen, suo coetaneo, militare di carriera, che si trovano ricoverati nel sanatorio Berghof a Davos sulle montagne della Svizzera. Fanno da contorno alla loro storia, oltre a dei comprimari, spezzoni di altre vite, di medici e pazienti, dentro un tempo sospeso.
La trama è lieve, e insieme densa di sviluppi e avvenimenti, tutti interiori – dove nulla pare accadere e i giorni si svolgono uguali, tutto accade – e il libro si fa leggere in scioltezza, cattura il lettore nonostante la solida mole, più o meno settecento pagine.
Il mondo della pianura è lontano, di una solida irrealtà che ne richiede una forte negazione. Tutto si svolge negli anni che precedono lo scoppio della Grande Guerra: concepito in quegli anni, il romanzo vedrà la luce nel 1924.
A suo tempo, molti anni fa, avevo bevuto, letteralmente affascinata, questo libro; oggi, mi ritrovo a leggerlo lentamente, a ritardarne la chiusura; un capitolo, anche meno, per “sedute di lettura”, intervallate da giorni, anche da una settimana, di interruzione. Parlandone con un’amica mi sono espressa dicendo che è come se, con regolarità, andassi a far visita ad Hans, chiedendo, come si fa in questi casi, raccontami i tuoi pensieri, come è andata questa settimana, quali nuove?
In (quasi) dirittura d’arrivo, rallento ancor più. Ogni frase acquista spessore. Sento una resistenza all’accelerazione del tempo che, ora, si intravvede nelle pagine? In attesa che il mondo di fuori presenti qualche conto?
A distanza di molti anni, la storia è presente alla mia memoria, indimenticabile, ma non solo di questo si tratta, non solo di un precipitare della storia dall’illusione del fermo-tempo. Non so: oggi la diversa persona che io sono sta leggendo un diverso libro. In un tempo diverso.
Non voglio finire queste pagine, non le voglio chiudere; non voglio che quel tempo sospeso si chiuda. Quasi fosse possibile fermare quei giorni, non giungere al momento in cui si scatenerà la tempesta. Mentre il libro mi restituisce, anche – assente dal mio ricordo – l’ironia nella voce dell’autore; la falsità, l’ipocrisia del luogo. Il freddo.
Proseguirò, temo, nella mia opera di rallentamento della lettura, ben sapendo come, a questo punto del libro, l’accelerazione mi si imporrà.
E del nostro oggi, che dire? Un oggi figlio di una tempesta mai conclusa? Come quelle malattie che si ripresentano e si ripresentano, illusoriamente cessati i sintomi, denunciando il permanere dell’infezione.
Il libri. Per star dentro ai giorni, certo. Non solo. Anche per una sosta, per una piccola fuga. Per momento di respiro. Di cui sentirsi colpevoli.
Ho qualche difficoltà, in questi giorni, a scegliere le mie pagine.
Lo scorso anno avevo augurato Buon Natale, con la colonna sonora di War is over; e con i buoni sentimenti dell’angelo Clarence di Frank Capra in “La vita è meravigliosa”. Ancora: con “Le avventure di Tom Sawyer” e con “Le avventure di Huckleberry Finn”, perché, quando si tratta di buoni sentimenti, Mark Twain ci sta sempre tutto. (Qui)
Auguri falliti, non c’è che dire. Ma il Natale è questo, dopotutto, a qualsiasi titolo lo si festeggi: è il tempo in cui, al temine di un ciclo delle stagioni della nostra vita, ci si prepara a viverne uno nuovo, ponendo in essere i rituali prescritti per impetrare una piccola rinascita come se, davvero, ci si potessero lasciare alle spalle gli effetti di ciò che avevamo compiuto, costruito, consumato, distrutto, nel corso dei cicli di vita conclusi.
Un ricordo, un qualcosa che fa parte del nostro essere più originale, contadino, che insiste a mantenerci in rapporto con la terra; con una misura ciclica del tempo, delle stagioni. Un memento dello svolgersi della nostra vita: nascita, crescita, nell’attesa di giungere ad una estate di pienezza della nostra singolarità, giunti alla quale prendere, conquistare, godere, a piene mani, la nostra vita. Inconsapevoli dell’autunno, e del sonno invernale, che ci indurrà a stringerci, dentro i nostri riti propiziatori, in cui cercare rassicurazione.
Ci prepariamo per la nuova semina e per il nuovo raccolto, ecco. Difficilmente guardiamo alle nostre spalle per trarne indicazioni. I nostri buoni propositi si fondano, per lo più, sui nostri desideri: quasi mai sui bilanci.
Questi ultimi, semmai, li chiediamo, quantomeno a parole, per gioco, ai bambini. Sei stato buono? Pensaci bene. Se sì, Babbo Natale ti porterà un regalo. Con la Befana sarà, a parole, appena un po’ più dura: quella è attrezzata anche per una punizione e potrebbe riempire la nostra calza di carbone.
Nessuno, quando scambia gli auguri di rito con altri, pensa veramente che il fatto, in sé, contenga un qualche reale effetto propiziatorio, ma anche sì. Seriamente: anche sì. Non fosse altro per il fatto, banale al punto da non esser quasi mai preso in considerazione, che la probabilità di avere di fronte a noi dei giorni buoni dipende, non solo ma anche, da noi.
Più o meno consapevolmente, ci siamo scambiati gli auguri, tutti, con chiunque, ad ogni singolo contatto, anche limitato ad un incontro tra ruoli.
Abbiamo scambiato doni: un modo per rammentare a noi stessi e agli altri, per far funzionare la necessaria circolazione dei beni, e il valore di reciprocità dei comportamenti; un modo per creare vincoli, con connessi aspetti di obbligo, carichi di significati complessi, la cui “ambiguità” ha un significato polisemico.
Rileggere Marcel Mauss, “Saggio sul dono”? Ci potrebbe stare. Per poi leggere, rileggere, qualcos’altro, e semplicemente scivolare nei propri pensieri sul tema.
C’è il dono buono, scambiato all’interno delle nostre relazioni di affetto, là dove il significato, e il messaggio che lo contiene, hanno il massimo di univocità, e la reciprocità conferma le attese.
Difficile dire che l’anno trascorso abbia mantenuto gli auspici; sperando lo abbia fatto, quantomeno per le singole vite private. Per la mia, certamente sì: ha portato con sé l’ultima nipotina in ordine di tempo e il Natale che lo ha chiuso è stato, per questi miseri tempi nella vecchia Italia, potrei dire affollato di bambini. Che volere di più. Sarà possibile ancora sperare in favole da raccontare, da leggere. In filastrocche e ninne nanne da ripetere e ripetere.
Un passaggio d’anno risolto, dunque, meravigliosamente, all’interno di una parentesi di vita privata, che tuttavia non potrà vivere dentro una propria bolla.
Fare dei libri un trait d’union, capace di orientare il pensiero, di connettere alla realtà e favorire l’azione, non so, qualcosa ci deve pur essere, qualcosa che sia possibile e utile fare. Perché non possiamo raccontarcela: viviamo nell’orrore. Consentiamo che ci vivano i nostri bambini, il futuro: che stiamo condannando a ripetere un tempo malato.
I libri sul tavolo. I libri che ho scelto per questo oggi.
Agota Kristov, “Ieri”, Einaudi 1997. Mi mancava. Ne ho trovato (grazie al libraio della Libreria Einaudi di Treviso) una vecchia prima edizione. Non che abbia importanza, il libro si trova ancora, cercandolo. Ma si tratta di un libro glossato dal precedente proprietario, e questo a me piace. Un libro che ha vissuto.
La quarta di copertina, nel commento di Marco Lodoli, apre così: “Una storia d’amore dura come un sasso. Bisogna avere una grande saggezza per raccontare una storia così, senza fronzoli e senza trucchi. Bisogna essersi lasciati alle spalle le bugie della letteratura e scegliere le parole nella loro povera sincerità. (…)“
Nulla di meno da Agota Kristof.
Da questo libro è stato tratto un film, «Brucio nel vento»: per la regia di Silvio Soldini, 2002.
Marc Augé, “La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction”, elèuthera 2016 (prima edizione 1998)
Dalla quarta di copertina: “Nel nostro mondo <surmoderno>, dominato dall’immagine, si è instaurato un inedito regime di finzione mediatica che agisce sulla vita sociale al punto da farci dubitare della realtà. I reportage giornalistici, ridotti a informazione-spettacolo, prendono sempre più la forma delle fiction e queste ultime, a loro volta, mimano il reale (…)”
Eugenio Borgna, “La nostalgia ferita”, Einaudi 2018. Confesso che leggo Eugenio Borgna con il contagocce, pur apprezzandone molto l’opera. Ogni suo libro letto è una pietra, che non consente il riposo del pensiero, né, soprattutto, della coscienza. Credo sia il momento per dargli voce, su un tema importante.
Riporto, per questo libro, le parole di chiusura della quarta di copertina: “(…) La nostalgia, infine, può essere intesa come recupero del passato: come sua donazione di senso; come antitesi, anche, al drago dell’indifferenza che porta al deserto delle emozioni”.
C’è dell’altro, sul mio tavolo. Oggi mi fermo qui.
Buon Anno! Facciamo che sia buono.