Sono arrabbiata. Molto. La quotidianità del mondo e di casa nostra investe e travolge la lettura, la scrittura, il pensiero.
Travolge vite. Il quotidiano di casa nostra, che è anche il mio, è ogni giorno più impastoiato nelle difficoltà.
E ci si mettono pure quelli che vogliono uccidere la mia lingua-mamma, la voce della mia terra veneta ormai sventrata, annerita, soffocata da figli degeneri che vorrebbero, sia mai, INSEGNARE NELLA SCUOLA UNA “LINGUA VENETA” TAROCCATA INVENTATA MALNATA – ma come, ma cosa – e con ciò seppellire, senza funerale, mandare in discarica, parole e costrutti linguistici che sono casa, intimità, latte materno; amatissimi lessici familiari.
Risuonano nella mente parole sante di Andrea Zanzotto.
FUISSE[i]
Pace per voi e per me
Buona gente senza più dialetto
senza pallide grandini
di ieri, senza luce di vendemmie,
pace propone e supremo torpore
l’alone dei prati la cinta
originaria dei colli la rosa
dispersa il sole
che morde tra le tombe
(…)
Parole italiane capaci di contenere la parlata, millenaria e sempre diversa, come ogni cosa che vive delle ossa dei morti di cui è impastata la fertile terra delle mie colline; delle colline del Soligo, terra del Poeta, terra che neppure può dirsi davvero trevigiana perché – chi è di questi luoghi lo sa; ad altri è difficile persino spiegarlo – le colline stanno nella “Sinistra Piave”, in un territorio chiamato “Quartier del Piave” – antica memoria della Serenissima occupante. Eh sì, qui non si era in territorio della Serenissima, si era occupati dalla Serenissima. In Sinistra Piave l’orgogliosa differenza non è mai morta e le lingue dei luoghi hanno continuato a segnare la differenza. Come dire: i veneziani erano “foresti”, che è qualcosa di più e di meno, qualcosa di diverso da “forestieri”, ecco tutto.
D’altra parte, chi capisce, nel trevigiano, il parlare dei vecchi belumat[ii]; provateci voi, e provate a spostarvi da un monte al monte vicino e alle sue genti e vedrete. Tutti veneti? Tutti figli delle mille piccole patrie italiane.
Sinistra Piave. Ci si parla, certo, con i veneziani, con i padovani e con gli altri; tra amici, ma badando bene a distinguere, e dentro ogni distinzione si fa vivente il tema, importante, del conoscersi e riconoscersi tra identità diverse – qualche chilometro più in là o dall’altra parte del mondo fa lo stesso – che, proprio in quanto tali, possono essere raggiunte, essere amiche, regalare parole con cui chiamare cose, vecchie e nuove, ad esistere.
Veneziani gran signori / Padovani, gran dotori / vicentini magna gati / veronesi tuti mati / (…)
La filastrocca continua, ma fa niente, è cosa morta (lo sapeva bene Andrea Zanzotto, in tempi non sospetti) che vorrebbe nominare le cose della quotidianità e gli orizzonti di senso di comunità minori che non ci sono più – divenute anomiche; non trasmesse ai figli, ai nipoti, mentre tutti erano occupati prima a sopravvivere e poi a “far schei” (devo tradurre? Non credo): spariti i riferimenti di quel vivere, e gli oggetti, e i saperi, e le regole di vita e i proverbi. E, con i loro nomi, le magie e gli spiritelli e i riti.
Va tutto bene; il mondo si è allargato, le distanze si sono ridotte. E così le identità, le appartenenze.
I dialetti sono lingue parlate, sono lingue-mamme, non Lingue-Madri; sono linguaggi che, in quanto parlati, possono travolgere le regole, disobbedire, inventare stramberie, proprio come fanno i bambini e la mamma perdona; sono contraddizione, parola segreta che non conosce anonimato e distanza.
Sono lingue che, proprio in quanto forti della propria identità, possono tendere la mano al “foresto”, che racconterà altre storie e sai, anche da noi, ma guarda un po’, da noi invece… fino a renderlo un tuo familiare.
Sono linguaggi che non incontrano “stranieri” – parola che sa di guerra, e non a caso da noi si dice (si diceva?) “mi no vao cambatar”, lasciando all’epopea del Piave il “Non passa lo straniero”, nemico, forse, vedremo.
Qui sono fratelli i morti nostrani e i morti “terroni” del Sacrario del Montello[iii], come noi contadini, alpini montanari, che con noi, parlando altre parole, hanno difeso una terra dove giacciono assieme – basta ascoltare le storie che racconta “la Piave”, che qui è, era, femmina; e le canzoni degli alpini parlano più di morose che di battaglie; e di vino; parlano di comunanza e riconoscimento.
Di quelle lingue resta, e vive tuttora, LA POESIA, che è lingua-mamma, che DICE (perché la poesia è voce) e FA ESSERE le cose al di là delle regole formali, al di là della traduzione, della trasposizione, della possibilità di essere volta in altro idioma. Non la si comprende? Fa niente: LA POESIA È.
Vive, la poesia delle piccole patrie; solo le sue parole, dimenticate, tornano a far esistere le cose. Nel ricordo. Ma guarda un po’: non la si insegna. E chi dovrebbe farlo? Gli inventori di una lingua inesistente che non la conoscono e non la capiscono?
Basta pescare nel mazzo. Si troveranno gioielli.
Bruno Agrimi. Un poeta dimenticato, temo. Di Abano Terme, nel padovano, Ci ha lasciato tre anni fa. Conservo con particolare affetto un suo volumetto dal titolo evocativo, “Contame i to potaci”[iv], editrice Il Gerione 1968.
Nel scuro dela sera
Se impissa le luci
A una a una.
Se sente solo
Le parole chiete de la zente.
No sbatociar de campane
No fis-ci de freni.
E tuto intorno
Pare incantà a vardare
El cielo ricamà de stele
Lustre come s-ciantisi.[v]
E ancora:
Sinquant’ani fa
Mi te go dito: te voio ben.
Caro el me vecio.
Stasera, soto i linsioi
Mi e ti, soli soleti
Se tegnemo par man
Parché no ne resta
Che ricordar chei tempi.
Caro el me vecio.
Tuto xe silensio;
fora el vento tira…
Caro el me vecio.[vi]

E fa male dover tradurre quel “caro el me vecio” che è modo di dire quotidiano, di una densità altra dal suo venir volto in italiano.
Tante le voci che la poesia “parla”, diverse da luogo a luogo.
Romano Pascutto (1909 – 1982), di S. Stino di Livenza, Sinistra Piave.
’NA CARTUINA DAL CARSO
Me pare mort l’è sta un bon patriota,
ma no l’ha mai fat nissuna confusion
fra patria e bae che conta la storia.
L’è partì lassando me mare a strussar
co sie fioeti picui, pessoni e cagoni.
’Na volta dal Carso n’ha mandà lustra
’na cartuina co sie bugnigui sentadi
sora l’urinal e ’na trombeta in boca.
Sora gera scrit in grando: W L’ITALIA!
Te domande de perdonarme, popolo mio:
co sinte i fassisti parlar de patria
me vien in ment i sie fioeti sentadi
su l’urinal, che i sonava par davanti
e co pi’ gusto trombetava par dadrìo[vii].
.
E Andrea Zanzotto, che non è solo Sinistra Piave, è collina, già pedemontana, e la lingua si fa aspra, breve, densa, spezzata.
Conzhacareghe, caregheta
Riva riva i caregheta
Che i é cofà ‘na società segreta,
i à ‘n derego che sol che lori i sa
e ‘na sior’Ana che sol che lori i sa:
eco ‘l primo che passa,
l’impaja la carega e inte la paja ‘l ghe assa
una renga che ‘l gat sgrifarà via,
cussì quel che vien dopo, bon colega,
catarà ‘na carega
anca lu da inpajar, e così sia.[viii]
Il dialetto di Andrea Zanzotto è quello della mia infanzia. Quindici chilometri da casa mia di allora a casa sua, a Pieve di Soligo, dove lui è sempre vissuto. E questa distanza già porta con sé differenze, talvolta di incerta traducibilità.
Conosco e parlo quel dialetto, ormai ridotto a una forma sensibilmente cambiata, italianizzata, e tuttavia mi piacerebbe davvero sapere come si è creato il termine “Signora Anna” per dire di aver la pancia vuota. Mentre, il fatto di inserire tra la paglia un’arringa per far arrivare il gatto a rovinare la sedia, procurando così lavoro ai colleghi, (forse una fantasia, tuttavia nota e diffusa tra i vecchi del tempo) mostra il vero cuore del dialetto, locale che più locale non si può, pochi chilometri e tutto cambia, anche i nomi e i fatti della realtà.
La puzza di un’arringa che marcisce dentro la paglia di una sedia, oggi, in un tempo e in contesti di igiene ossessiva, di saponi profumi e deodoranti, non potrebbe sfuggire; lo avrebbe potuto nelle vecchie case contadine, tra odori di cucina e di stalla, tra mucche, galline e animali da cortile vari da accudire; tra uomini e donne che ci convivevano, quando non c’era acqua in casa e il bagno era un fatto raro; mentre la biancheria doveva durare e dunque andava cambiata e lavata poco perché, dicevano le donne “Ogni lavada l’è na fruada” (“ogni lavaggio consuma”, la biancheria che, molto sporca, doveva essere strofinata energicamente). Era un mondo di afrori oggi neppure immaginabile.
Di questo si tratta: parlare una lingua dialettale significa parlare una lingua di fatti e contesti particolari; condividere una precisa sottocultura locale di grande ricchezza ma segnata da riti e miti di fatto segreti. Chi anche solo pensa di insegnare scolasticamente un dialetto lo uccide; e una lingua “Regionale”, in Italia, non esiste – le Regioni sono un costrutto recente e artificiale. La storia italiana è fatta da miriadi di piccole realtà con i loro linguaggi locali.
Ci sono la Storia della Serenissima e la sua lingua, anche letteraria. Frequentare Carlo Goldoni farà solo del bene, collocandolo nel suo tempo, con i suoi contemporanei.
Ma confondere La Serenissima Repubblica con il Veneto è inaccettabile. Altri occupanti hanno governato la terra veneta – che non per questo ha lasciato i propri dialetti per sostituirli con la lingua dell’occupante – fino a quando le genti venete hanno scelto, riconosciuto, la propria italianità, e una lingua cui appartenere conservando, come ogni piccola patria fa, ovunque nel mondo, il proprio parlato – familiare, identitario. Privatissimo.
Il solo fatto che venga proposta la sostituzione dei diversi lessici con una lingua che non c’è, è grandemente offensivo, del Veneto e di tutte le culture e lingue locali italiane che sono storia e ricchezza di un intero popolo.
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[i] Andrea Zanzotto, in “Vocativo”, (1949 – 1956)
[ii] bellunesi
[iii] Monumento ai caduti della Prima Guerra Mondiale
[iv] “Raccontami i tuoi pastrocchi”
[v] Nel buio della sera /si accendono le luci, / a una a una. /Si sente solo / le parole quiete della gente, /Nessun rintronare di campane / nessun fischio di freni. / Tutto l’intorno / pare ammaliato a guardare / il cielo ricamato di stelle / lustre come scintille
[vi] Cinquant’anni fa / ti ho detto: ti voglio bene. / Caro il mio vecchio. / Questa sera, sotto le lenzuola / Io e te, soli soletti / Ci teniamo per mano / Perché ci resta solo il ricordare quei tempi. / Caro il mio vecchio / Tutto è silenzio. /
Fuori tira vento… / Caro il mio vecchio.
[vii] Mio padre morto è stato un buon patriota / ma non ha mai fatto nessuna confusione / fra patria e balle che racconta la storia. / E’ partito lasciando mia madre a penare / con sei figli piccoli, con il moccio al naso e pieni di cacca. / Una volta dal Carso ci ha mandato lucente / una cartolina con sei bambini seduti / sull’orinale e una trombetta in bocca. Sopra era scritto in grande: W L’ITALIA. / Ti domando di perdonarmi, popolo mio: / quando sento i fascisti parlar di patria / mi vengono in mente i sei bambini seduti / sull’orinale, che suonavano per davanti / e con più gusto trombettavano per didietro. (Qui, con altri)
[viii]Andrea Zanzotto, “Idioma”, Arnoldo Mondadori Editore 1986.
“Impagliatori di seggiole, seggiolai”.
Arrivano, arrivano i seggiolai / che formano tra loro quasi una società segreta, / usano un gergo che solo loro conoscono / e hanno un vuoto di pancia che loro soli sanno: /ecco il primo che passa, /impaglia la sedia e tra la paglia lascia /un’aringa che il gatto strapperà via, /così chi verrà dopo, buon collega, /troverà una sedia / anche lui da impagliare, e così via.