“E come fai a sapere tutte queste cose…sai tutto anche di me?

James Purdy, “Non chiamarmi col mio nome”, Racconti edizioni 2018

Traduzione di Floriana Bossi

 

È accaduto di nuovo: mi sono innamorata di (o forse appassionatamente odio?) un autore che non avevo mai letto, che era per me solo uno dei tanti nomi vagamente già sentiti, o fors’anche no; e ora dovrò farmi una piccola scorpacciata impossibile: per i pochi titoli tradotti in italiano di un autore tanto riconosciuto dal Gotha della letteratura USA e anglosassone quanto misconosciuto oggi al grande pubblico dei lettori; per la fatica, il dolore, che una tale scrittura, nella sua linearità, scarna, essenziale, “facile” alla lettura, porta con sé, stremando chi legge. Imperdibile.

Undici racconti più uno, l’ultimo, centrale e nel contempo sconvolgente il “discorso“ che guida la raccolta, e che obbliga a ripensare e riprendere in mano quel già letto di pagine che scorrono, un attimo tra le dita mentre gli occhi non  possono lasciarle; una lettura insieme lenta, lunga, nel leggere e rileggere il singolo racconto – ripercorrendo lo scorcio di una piccola storia,  mentre lo sguardo della mente si allunga ad un’intera vita; un piccolo dialogo, due personaggi, ed è tutto là, proprio tutto, la sofferenza delle piccole cose – ma come potremmo dirle piccole, non lo sono; perché è davvero tutto là, le notti e i giorni, gli anni.

C’è Il dolore. Il fronteggiamento dell’altro e di noi stessi. La stanchezza. Che fa male ed è – perché, lo sappiamo, tutto si tiene – vita, casa.

Marito e moglie

“Ma come può esserti successo, se le cose vanno bene e non hai fatto nulla di male” disse Peaches Maud

“Peaches, sto cercando di dirtelo” rispose Lafe. “Nessuno ha mai avuto simpatia per me, in fabbrica. Poi, come se riferisse le parole di qualcun altro: “Ho un carattere difficile

“Difficile? Ma se sei la persona più tranquilla del mondo”

“Non sono virile” disse lui imperiosamente con una voce timorosa, come se stesse ordinando qualcosa per telefono”

Sarà necessario  ritornare al racconto chiuso il giorno precedente; sostare, al termine di ognuno di quei momenti-tutto, su di un piccolo fatto, di dolente quotidianità, di quelli che  vivi e neppure puoi raccontare perché neppure sai cosa ti stia davvero accadendo; fermarsi, come ci si ferma dopo aver letto un lungo romanzo, per rimacinare tutto, o quel piccolo passaggio – là c’era dell’altro, lo so – ricercando il periodo, la perfezione di quel senso di vergogna per un’emozione (indicibile, dolorosa; molto dolorosa; e come, da dove viene, che mi faccia bene?)

E i lividi? I muscoli tesi e doloranti? Sono i miei, sono i lividi di chi legge che, finalmente, si sente riconosciuto; denudato – allora non mi inventavo nulla, non c’era bisogno di nascondersi – ecco, è tutto qua; sono io, ci sono il mio dolore e la mia colpa, che si placa nel riconoscimento. Non sono solo, non sono sola, ecco – Chi l’avrebbe detto: era dicibile. Era, anche, un dolore buono? Non so, davvero non so. Forse.

Deve trattarsi di qualcosa del genere.

“Non ho carattere, Maud” disse lui lentamente, ancora come se stesse citando qualcuno.

Era vero, pensò Maud, aspirando vigorosamente la sigaretta italiana: non ne aveva proprio. Non era mai riuscito ad avere carattere. Stava sempre per fare qualcosa o cominciava qualcosa ma, non avendo carattere, si fermava ai preliminari.”

“Che cosa gliene frega a loro se hai carattere o no?”

Mariti e mogli. Padri e figli. Madri e figli. Fratelli. Amiche. Figli che se ne vanno. Che non se ne possono andare.

Chi non c’è più. E piccoli, normali dissapori della quotidianità, innesco di: cosa? Di tutto: il dolore del noi, la fatica di vivere, le piccole grandi manchevolezze taciute, indicate per cenni, i vocabolari segreti.

“Non la reggo questa pressione, non ce la faccio” urlò. “Perché hai dovuto fare una cosa simile?”

“Non ho fatto nulla” spiegò lui, come cercando di ricordare ciò che era e non era stato detto. “È per questo che è così strano. Hanno avuto a malapena la vaga sensazione che ne sarei stato capace, e allora mi hanno licenziato”

“Gesù, io non capisco” disse lei senza più traccia di lacrime sul volto. “Perché questo doveva capitare proprio a me che non posso soffrire nulla che non sia normale”.

Storie che iniziano – ma non sono storie, sono scorci di storie, ritagli di vite, la parte per il tutto – e che nel tutto si chiudono: con dolore? Anche sì, ma è la vita. Anche no. Anche sì. Ma è normale. È risolto.

Tempo di sera

“In qualche modo l’idea che George Watson, sebbene morto da tanto tempo, fosse ancora un bambino che una madre poteva amare, aveva in sé qualcosa di perfetto che le piaceva. (…)”

“(…) la sera, che fino ad allora si era infiltrata lentamente nella casa adesso entrò come una grande ondata, portando il piccolo salotto dentro la profonda notte d’estate e non era difficile credere che la luce del giorno non potesse entrare mai più, tanto la notte era nera e ferma.”

Poi c’è l’ultimo racconto: “63: Palazzo del sogno”.

Tutto cambia. Nulla (o forse tutto?) è come prima; come nelle vite che avevamo incontrato. Nulla ha più a che fare con i nostri giorni.

Certo, non lo vorremo. Certo è un sogno.

“Ora mi sento peggio di prima – disse improvvisamente Fenton – Perché cerchi di sapere tutte queste cose sulla gente, quando sono cose così tristi?”

“Non lo so” – disse Parkheart dolcemente.

“E come fai a sapere tutte queste cose?” – disse Fenton quasi disperatamente. “Sai tutto anche di me?” Posò di nuovo la testa sul tavolo senza aspettare la risposta.

C’è quella cosa di essere uno scrittore.

“È un uomo che scrive cose sulla gente” disse Fenton. “Vuole che io gli dica delle cose per scrivere su di me.”

“Fenton alzò gli occhi al soffitto alto da far spavento; l’idea che quell’uomo lo ascoltasse parlare per scrivere di lui era troppo strana per essere capita.

“Come scrivi tu nel tuo quaderno?”

“No” rispose, e si voltò a guardare Claire. “Io annoto le cose per metterle in chiaro e capire quello che dobbiamo fare dopo. Capito?”

Non c’è risposta possibile

“Prese un mozzicone di matita e scrisse qualcosa sul suo quaderno.

“Le cose non vanno avanti nelle nostre vite”, scrisse. “Talvolta qualcuno come la mamma muore e il mondo si ferma o comincia a muoversi all’indietro, ma a noi non accade nulla, perfino la morte non ci conduce da nessuna parte tranne forse indietro. Eppure non c’è che da aspettare, è la sola cosa che ci resta da fare.”

Sono molto grata a Racconti Edizioni per questo libro e per la riproposizione di un autore che, da quanto vedo, ha avuto, negli anni ’70, una sua pregevole storia editoriale Einaudi: purtroppo, al tempo, senza seguito.

È stato un autore prolifico – la sua scrittura ha attraversato il secolo; il suo ultimo lavoro è del 2000 – e ora, forse, ha raggiunto il tempo cui appartenere.

Da noi, si sono veduti periodici, coraggiosi tentativi di riproporlo: Minimum fax (2004), Baldini & Castoldi (2011), Dalai (2010).

Ora, è auspicabile che Racconti Edizioni abbia centrato, con il tempo, l’obiettivo; raccogliendolo anche per gli altri: a meno di voler mancare di ogni rispetto per il giudizio di editori che, occorre dirlo, ci hanno provato; ci provano: e questo vorrà pur dire qualcosa.

James Otis Purdy, foto di Carl Van Vechten, 1957. Wikipedia

James Purdy (1914 – 2009) è universalmente riconosciuto come una delle voci più interessanti del ‘900, di quella New York che lo ha veduto interprete di una società mista, nera –  non viene esplicitato, nei suoi racconti, non in questi almeno, ma si coglie (nei nomi doppi, nella tonalità dei dialoghi) la negritudine, non esclusiva, dei suoi personaggi); interprete del mondo della arti figurative e del Jazz, che emergono nel ritmo dei dialoghi, nei quadri, nelle inquadrature  dei suoi racconti; lui gay, in anni difficili.

Un autore che è necessario leggere.

Dopotutto, cosa meglio di un racconto per l’andata a letto, si dice. Ecco: sì, il silenzio della notte sarebbe l’ideale, purché si accolga il dover rimanere, poi, a occhi chiusi, ad addormentarsi rimuginando sulla propria vita; su cosa quel tale abbia scoperto di noi che noi stessi che non avevamo messo a fuoco; occupati a sbirciare, in modo emotivamente impudico, dentro modi di relazione e dentro vite capaci, nella loro alterità, di denudarci a noi stessi. Per precipitarci infine – dove?

Proprio quando avevamo patteggiato con quel mondo dal dolore buono, o almeno noto, ci viene detto che no. Che c’è dell’altro.

Tutto davvero poco addomesticabile.

So che andrò alla ricerca di altro da leggere di questo autore: saranno ancora racconti, immagino; e i romanzi. Temo, anche, ciò che scoprirò.

So tuttavia che non potrò evitarlo. Questo autore deve essere affrontato. Fa pure bene.