“Se ne avete voglia, vi racconto una storia”

Nikolaj Leskov, ritratto da Repin. Da: Wikipedia

Nikolaj Leskov, “Il pellegrino incantato. Il mancino”, e-book, realizzato con StreetLib Write, a cura di Bruno Osimo. Editore: Bruno Osimo

 

“Stavamo navigando sul lago Làdoga dall’isola di Konevec verso Valaòm e lungo quel percorso, per esigenze di navigazione, ci fermammo al porto di Koréla.”

Un gruppo di passeggeri ne approfitta per visitare il luogo. Tornato a bordo, il gruppo commenta l’estremo isolamento, la povertà e la tristezza del villaggio.

Qualcuno narra di un tale che, esiliato colà, si era impiccato per disperazione. Viene commentata la estrema gravità dell’atto, che non avrebbe potuto trovare perdono nell’al di là poiché, per un suicida, nessun vivente può pregare, intercedere presso Dio e ottenere che gli vengano perdonati i suoi peccati.

Ed ecco alzarsi la voce di un passeggero, un omone, che interviene deciso:

“Io, quello che dite dei suicidi all’altro mondo, che non li perdonerebbero mai, non lo accetto. E che per loro non ci sia nessuno a pregare, anche queste sono sciocchezze, perché c’è un uomo che la loro situazione può sistemarla in modo molto semplice con gran facilità”.

L’uomo era un vero personaggio che, incredibilmente, nessuno aveva fino a quel momento notato. Era vestito “con un lungo sottotonaca da novizio, con una larga cintura monastica di pelle e una berretta alta di panno nero. (…) gli si poteva dare qualcosa di più di una cinquantina d’anni; ma era un grandioso eroe nel pieno senso della parola, anzi il tipico eroe d’animo semplice, bonario delle fiabe russe (…)”

Le sue parole incuriosiscono il gruppo che gli chiede di narrare, dunque, chi sia l’uomo in grado di salvare l’anima dei suicidi. E lui, di cui ancora non conosciamo il nome e la storia, risponde tranquillamente:

“Ecco chi è signori (…): nell’eparchia di Mosca in un paese c’è un popettino, ubriacone perso, al quale per un pelo non hanno tolto gli ordini. È lui che se ne occupa.

All’incredulità degli astanti, che chiedono come faccia a saperlo, l’eroe risponde:

“Ma abbiate pazienza, signori, non sono l’unico che lo sa, dalle parti di Mosca, anzi, lo sanno tutti, perché è una faccenda di cui si è occupato sua altissima santità il metropolita Filarét in persona”.

Da qui in poi, sarà racconto, sarà una voce che legherà a sé i viaggiatori e fermerà il tempo del viaggio.

Il nostro eroe da fiaba finirà per raccontare, a grande richiesta e senza farsi molto pregare, tutta la propria vita, travagliata e avventurosa, segnata dalla predestinazione. Sarà un racconto della semplicità, della meraviglia, della serenità, della fatica e del dolore di un uomo giusto, totalmente disponibile ad accogliere i giorni, e le sofferenze, che dio gli ha inviato.

Chi è quest’uomo? Ce lo dirà lui. È un “connessér”, un grande esperto di cavalli; è un ex militare; è uno che, divenuto monaco, ma non ancora del tutto, sta percorrendo una propria strada nella vita dopo aver superato molte vicissitudini.

I compagni di viaggio sono incuriositi.

“Ma voi qual è che considerate la vostra vocazione?”

“Ma non so, davvero, come dirlo…Perché ne ho passate tante, m’è capitato di stare sia sui cavalli sia sotto i cavalli, anche in galera sono finito, e ho fatto la guerra, e ho picchiato la gente, e mi hanno mutilato (…)”

“Allora, raccontateci la vostra vita, per favore.”

“Ma come, quel che mi ricordo, come volete, lo posso benissimo raccontare, solo che non posso fare diverso che cominciare proprio dal principio.”

Il racconto vero e proprio ha inizio mentre la voce di chi racconta – uno che si trovava nel gruppo, che ha potuto ascoltare questa storia, e che ne narra a sua volta – si occulta: la sua sarà una voce nell’ombra, giusto una frase di avvio, due parole di raccordo nella storia, utili a facilitare l’ascolto della voce narrante, del protagonista.

“L’ex connessér Ivan Sever’ânyc signor Flâgin cominciò il proprio racconto così “.

Null’altro. Mentre il lettore sarà già legato a doppio filo alla voce e alle vicende dell’eroe. Ne udirà il suono, e domani lo ritroverà nella memoria, indelebili le cadenze di quel familiare, bonario, incolto modo di esprimersi.  Incontrandolo – perché nessuno rinuncia alla speranza, persino alla certezza, all’attesa, di incontrare certi personaggi – lo riconosceremmo, ne siamo certi.

Oppure – ma forse no, forse il raccontare, la sera, in compagnia, è qualcosa che ormai appartiene, come me, ad un altro tempo (non perché io sia Matusalemme ma, nel nostro tempo, i nostri giorni corrono, corrono, e il mondo cambia, e corre a sua volta, e a sua volta il tempo pare non trovar tempo. Tutto viene dimenticato, o almeno così pare a me) – ci si ritrova davvero ad ascoltare uno che narra, in una serata invernale, fuori è presto buio; uno che … ve l’ho mai raccontata quella storia, e tutti zitti in silenzioso ascolto, salvo la risata, un momento di commozione, con doverosa soffiata di naso, un giro di riempimento dei bicchieri e rumoreggiamenti consimili.

“Sono nato servo della gleba e provengo dalla servitù del conte K della regione di Orël”.

Poi, si sa, i veri narratori amano spararle grosse, e tutti se lo aspettano, e il confine tra storia e leggenda si fa labile, anche quando non si sta narrando ai bambini il triste caso di quel bambino (bambina, meglio) che aveva disubbidito e poi, o di quell’altro che, animato da spirito di avventura ma buono, coraggioso e leale, era andato alla ventura e aveva finito per diventare re, o regina, in una castello carico di tesori.

Questa è una storia di adulti per adulti; è anche una storia di povertà, fatica, sofferenza e dispiaceri. È pure una storia di formazione, di riconoscimento di come si cammina nella vita giungendo a guardare negli occhi il proprio dovere-destino e ad accoglierlo.

Poi c’è quel problema: la geografia, che, come ben sappiamo, non è qualcosa a sé, non in ogni luogo possono accadere certi fatti, e il tempo, anche lui, come no, terra e tempo condividono la nostra vita, ne sono la forma. Sono destino. E qui c’è la Russia – c’è quel modo di dire, la “Madre Russia”, che per noi non vuol dire nulla, o va a sapere cosa vuol dire, ma dice; della sua identità, delle diversità che la compongono; di un corpaccione di popoli e freddo e laghi e steppa e distese sconfinate e piccoli paesi-carcere da dove il solo modo per uscirne è impiccarsi. Che poi è una di quelle cose che nella vita capitano, non c’è di che stupirsi, direbbe il nostro Ivan Flâgin. Dopotutto, male che vada, c’è sempre quel popettino ubriaco che prega anche per te e rimette tutto a posto.

Così, ci si trova come se fosse tutto vero – ma io credo lo sia, si tratta sempre di quel tale che narra una storia che gli hanno raccontato e certo, è un narratore e dunque un mentitore per definizione altrimenti si perderebbe tutto il bello, ma è uno che racconta e dunque dice il vero, a parte i fatti. Lo sappiamo bene, se è una storia, <È> – e noi tutti, solo sulle storie cresciamo e impariamo e ci correggiamo e accumuliamo quel tanto o poco di noi che sarà possibile lasciare ai figli.

E va bene, lo vedete da voi, sono affascinata; meglio, incantata; e non so fermarmi, ma questa storia la dovete leggere.

Poi, dovete prendere un buon Atlante geografico, con Wikipedia ci ho provato senza grandi risultati, devo dire; i luoghi, le popolazioni, la storia, le diversità che compongono la Russia, mi risultano indecifrabili e, insieme, temo di dover confessare un piccolo desiderio di capirci poco, per rimanere, quel tanto che basta, dentro una fiaba, per non rovinare tutto. Chi vorrebbe mai sapere davvero – salto sempre di palo in frasca – dove si trova esattamente la grotta di Alì Babà e se i quaranta ladroni sono stati infine catturati, processati e, dati i tempi e i luoghi, impiccati o decapitati. E scommetto che uno Stato Sovrano si sarà tenuto la refurtiva.

Il nostro Ivan Flâgin ha viaggiato, ha vissuto con genti diverse; e dove stanno i Tatari? E dove si trovano le steppe? E hanno fine? Mentre i cavalli corrono e corrono.

E gli zingari? e dove si muoveva, dove combatteva l’esercito dello Zar? E come potrò distinguere, alla fine, ciò che si trova in questo racconto da ciò che creo io, da lettrice, imbastardendo il tutto con memorie spezzettate, frammenti che si ricompongono in figure diverse, provenienti da altre storie. Chi saprebbe davvero elencare la forma dei singoli vetrini colorati di un caleidoscopio?

E via, con il dito su una carta che prende le mosse dal lago Làdoga, un mare, in effetti, dalle mille isole (660 dice Wikipedia, ma ci aggiunge un: “circa”) il lago più grande d’Europa e certo mai il narratore avrebbe potuto pensare di far qualcosa di più che nominarlo, dove il nome basta ad evocare tutto, storia, geografia, gente, fedi e culture.

E storie. Con quel po’ di menzogna che il produrre un sogno per altri richiede.

Se volete, potete anche leggere la traduzione di Tommaso Landolfi, edizione Adelphi ma non so; che dite, c’è un e-book, fattura artigianale, euro 3,49 e passata la paura. Che ne dite?

In ogni modo, devo controllare. Non è possibile che non ci sia il cartaceo, di questo libro. Ho sicuramente capito male.

Non ho raccontato della pulce d’acciaio. In effetti, credetemi, è solo possibile leggerla. Per me, non ci ho capito molto se non un’emozione, un affascinato sbalordimento: non per la pulce; per quella nobiltà artigiana che crea leggende; poi c’è quel problema, della fede, di <quella> fede in dio. Tutto un non capire che ti resta dentro.

Vedete voi: dopotutto sta sempre in quegli 3,49 euro; insieme al prezioso, accessibile, amichevole apparato critico. Privo di mappa, purtroppo.

Con Nikolaj Leskov, resta da completare il saggio “Il narratore”. Ho trovato scritto, non so dove, a proposito del mondo artigiano, qualcosa sulla “triade anima-mano-occhio”; su qualcosa capace di restituire alla narrazione la corporeità del fare.

Alla prossima, dunque.