“La misura del tempo”, Einaudi 2019
“Mi piace cenare con gli amici. Allora perché devo morire”
Marcello Mastroianni[i]
Una piccola interruzione alla peste: ci vuole. Ripromettendomi di ritornarvi. Che poi, Carofiglio non ci fa mai mancare quel suo, appena accennato ma costante, sentimento di caducità delle cose, e dunque di noi, della nostra presenza nel mondo; adeguatamente nascosto sotto una civile e riposante riflessione sul bisogno di accostare accadimenti e persone accogliendone ragioni e relatività.
Carofiglio è, per me, quasi un familiare, i cui romanzi tuttavia non ho mai proposto; o almeno non finora. Né, per certi versi, avrei mai pensato di farlo.
Non sono in grado di dirne i motivi, se non per ipotesi, come qualcosa di cui non sono certa, ma ci provo.
Mi appiglio al dato razionale, alla scusa ufficiale che fornisco a me stessa: di regola, e salvo eccezioni, non recensisco autori di noir che propongano personaggi fissi, tipo Hercule Poirot, o il Commissario Montalbano o, per l‘appunto, l’avvocato Guerrieri. Al più, posso proporre l’autore, tra i cui libri non saprei quale scegliere, se non come esempio.
Facciamo un esempio: quale romanzo di Poirot scegliereste? Difficile, vero?
Poi, ci sono libri e autori che fanno parte del background letterario di ogni lettore, credo; e tra questi, solitamente, vi sono gli autori di romanzi seriali (perciò, infatti, la serie continua). Che dirne, dunque.
Potremmo dire che, per questo genere di narrativa, è il protagonista a venir scelto, non, o solo secondariamente, la storia: il protagonista, i suoi pensieri, la sua filosofia di vita, da condividere o meno.
Poi c’è un luogo-mondo: sarebbe pensabile Montalbano senza Vigata? Che so, trasferito alla Questura di Genova? Impossibile, perché ognuno di noi è, anche, il luogo, il tempo e le relazioni che occupa, i modi di quelle relazioni, tutto ciò che gli consente di stare nel mondo essendo qualcuno, non importante, neppure necessario ma, in un certo modo, anche sì; uno che quel mondo contribuisce a creare. Il lettore, dunque, scegliendo quei romanzi, se ne va, anche, ad abitare un luogo, una fantasticata Londra del periodo tra le due guerre, o la Vigata, o la Bari dei nostri giorni.
Così, teniamo quell’autore, e quel personaggio, protetti tra i nostri intimi. Se ne parla in un contesto di familiarità, come si parla con amici di un amico comune, con familiari di un parente. Comportarsi diversamente sarebbe come sparger chiacchiere su fatti privati. Non si fa.
Ma eccomi a farlo. E, a dire il vero, “La misura del tempo”, bel libro, non è tuttavia tra i miei preferiti.
Ma questi sono giorni strani, e c’è lo Strega in avvicinamento: una candidatura allo Strega conduce sicuramente l’autore fuori dalla cerchia, per quanto estesa sia, di una tacita condivisa impropria familiarità, un po’ da supporters: Si comincia a leggere; meglio, a rileggere questo libro, già letto nel giorno stesso dell’uscita. Si passa ad altri libri, già letti, dell’autore.
Va così, con Carofiglio: lo si riprende, magari a partire, per l’appunto, da un suo nuovo libro appena uscito e si prosegue con la rilettura: non per una scorpacciata, no, ma ci si regala un buon pranzo, con più portate; recuperando anche quel libro che era piaciuto meno ma che ora, rileggendo, si apprezza meglio, forse lo si era letto male, al momento sbagliato.
E vorrei chiedere all’autore: ha lasciato al suo destino il Maresciallo Fenoglio? Mi piaceva; da tempo non lo incontro.
Con i noir mi prende una certa, per me anomala, voglia di legge ed ordine. Preferisco.
In questo “La misura del tempo”, l’autore fa dire al suo personaggio che la giovane collega con cui lavora, come lui avvocato penalista, ha “l’anima di un Pubblico ministero”; e dunque fatica a difendere imputati colpevoli: meglio lasciare che si occupi di difendere vittime, molto meglio.
Ecco: la capisco. In un giallo, e particolarmente in un legal thriller, esigo la mannaia della giustizia, magari pietosa ma certa, e possibilmente esercitata da rappresentanti dell’ordine costituito, niente investigatori privati (Nero Wolfe e Hercule Poirot a parte).
Ma sto generando un equivoco: è inappropriato inserire le storie di Carofiglio nella categoria, per dire, dei legal thriller. Ciò che si legge in questi libri, e che si ritorna a leggere, e nonostante un coté legale approfondito (e interessante), è altro. Si leggono vite, di gente mai perfetta ma mai inaccettabile, di cattivi e di buoni che rispettivamente non lo sono: che sono gente; a partire dal protagonista.
Confesso di non amare alla follia l’avvocato Guerrieri, ma temo sia perché, ecco, è una bella persona, certo, ma con molte fragilità che, appartenendoci, ci portano ad identificarci: ne risulta che, quando lui non si piace, noi non ci piacciamo. E non la prendiamo bene. Credo si tratti di questo.
Un personaggio che frequento volentieri, dunque, ma con qualche riserva, ora più ora meno. Mentre ho una grande simpatia per “Mr. Sacco”: vero, è formalmente improprio chiamarlo personaggio, ma lo è, ed è uno che ha sempre qualcosa di utile da dire. Anche, soprattutto, perché tace.
Credo tutti conoscano Mr. Sacco; e se qualcuno non ha mai letto una storia dell’avv. Guerrieri, per conoscerlo dovrà leggerla.
Frequento invece molto volentieri la Bari di Carofiglio, una città in cui ho trascorso, un paio di anni fa, solo alcuni giorni, molto belli. Una città che ho trovato piacevole, cordiale, dove mi piacerebbe ritornare per un soggiorno prolungato: e, ne sono certa, si tratta anche dell’attesa di incontrare i luoghi e il mondo di questi romanzi. Si tratta di non incontrare ma “sapere che c’è” – perché nella vita una possibilità è tutto – “l’Osteria del caffellatte” – ecco, dovessi scegliere, forse “Ragionevoli dubbi” è stato il romanzo di Carofiglio che ho più amato.
“A quell’ora – erano le undici – avrei trovato un solo posto dove comprare libri e fare anche due chiacchiere. L’Osteria del caffellatte, che nonostante il nome è una libreria.
Apre la sera alle dieci e chiude la mattina alle sei. Il libraio – Ottavio – è un ex professore di liceo con l’insonnia cronica. Aveva tenacemente detestato il suo lavoro di professore per tutti gli anni in cui era stato costretto a farlo. Poi una vecchia zia, senza figli, senza altri parenti, gli aveva lasciato soldi e un piccolissimo palazzo in pieno centro. Pian terreno e due appartamenti l’uno sull’altro. L’occasione della sua vita presa al volo e senza esitazione. Era andato ad abitare al secondo piano. Al pian terreno e al primo piano ci aveva fatto una libreria. Siccome di notte non poteva dormire si era inventato quell’orario.”
Ecco, dentro la Bari di Gianrico Carofiglio, ma sarebbe meglio dire dell’Avvocato Guido Guerrieri, del Maresciallo Pietro Fenoglio, esiste un’isola che non c’è, che in questo o quel romanzo ritorna (“La regola dell’equilibrio?”). E dove non è necessario trovarsi in compagnia dell’avvocato Guerrieri, ci si può andare anche per i fatti propri.
Poi ci sono i libri, che il protagonista suggerisce. Ne avevo accennato in un precedente post (qui ) e, pure se non ne avevo parlato (sempre quella faccenda, credo, di non parlare in pubblico dei propri familiari) era stato Carofiglio a suscitare il tema. Lui è uno di quegli scrittori il cui personaggio “presta libri” ai propri lettori.
E presta incontri, e riflessioni, in apparenza in modo indipendente dal canovaccio narrativo della storia che ci sta proponendo; al di fuori ma non proprio: sono infatti incontri, riflessioni, che denotano il clima in cui il lettore verrà immerso; sono quel pensiero, sulla vita e sulla morte, che determina il modo, del personaggio – e di ognuno, per consonanza o per opposizione – di rapportarsi ad un compito, di modulare le proprie relazioni, di muoversi al tempo di una filosofia di vita neppure saputa, che è là, pronta a rivelare il lettore a se stesso, e interrogarlo.
Ed ecco, in apertura del libro, un episodio, un dettaglio del fare quotidiano, routinario: l’incontro con un conoscente, il come stai che diventa, da parte dell’altro, il racconto accorato della morte della madre, anziana, avvenuta due giorni prima; e il ritrovarsi seduti a prendere un caffè, a parlare e ad ascoltare.
“Mamma ha detto una cosa che mi ha lasciato sbigottito (…) ha detto che le era difficile immaginare il mondo senza di lei”
La riflessione prosegue e non è chiaro se a parlare sia la voce, il pensiero dell’autore o se quel pensiero, quello sviluppo del concetto venga assegnato alla voce dell’anziana che sta morendo:
“(…) Il mondo senza di noi prima di noi è una lunga fase preparatoria. Il mondo senza di noi dopo di noi invece è semplicemente il mondo senza di noi. (…) io so che fra qualche settimana, al massimo qualche mese, non ci sarò più e il mondo continuerà a esistere, senza nemmeno una increspatura.”
Ed è epigrafica la chiusura dell’episodio:
“Rimanemmo in quel bar ancora per un po’. Quando uscimmo non aveva più gli occhi arrosati per il pianto.”
Poi, uno spazio di sospensione-paragrafo e:
“In qualche modo riuscii a studiare le udienze e a sbrigare le altre incombenze del pomeriggio.”
Va così, la vita, dico. Mentre chi legge si interrompe – al giusto cambio di paragrafo, una linea di stampa vuota sulla pagina – e resta, il libro tra le mani, a pensare. A confrontarsi con un pensiero che sente suo/non sente suo ma che chiede di essere colto, e trattenuto.
Ecco: mi accorgo di aver tralasciato, totalmente, qualsiasi accenno alla trama, al contenuto legal thriller del libro, e penso che va bene così.
Carofiglio è un narratore di grande bravura; le sue trame trattengono il lettore, la suspense richiesta dal genere c’è tutta, sia pure senza colpi di scena, nel modo riservato che l‘autore trasmette al proprio personaggio. Ma il libro sarà riletto perché parla d’altro, di cose cui è necessario ritornare.
Non ha importanza alcuna se “La misura del tempo” o un suo prossimo libro vincerà lo Strega.
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[i] Carofiglio riporta, in “La misura del tempo” questa frase che, già anziano, Marcello Mastroianni disse in una intervista.